Circondata da colline quasi interamente coltivate a vigneti e oliveti, a tre chilometri dal centro abitato di Serdiana, la piccola chiesa campestre di Santa Maria si erge maestosa nella sua semplicità, risultando ancora oggi uno tra i più integri esempi del Romanico sardo. Al suo cospetto, nonostante le dimensioni siano decisamente inferiori rispetto a quelle di molte altre chiese campestri, ci si sente piccoli e circondati dal silenzio.
A fare capolino tra gli alberi, ogni tanto, qualche gattino incuriosito dalla presenza umana in un ambiente così naturale e pacifico, sebbene oggi la chiesa sorga all’interno di un parco pubblico.
Sulla base dei documenti archivistici ed epigrafici, sappiamo che la chiesa fu edificata intorno al 1125, data a partire dalla quale è attestato il villaggio di Sibiola, in cantoni di arenaria locale.
Ad eseguire i lavori furono maestranze chiamate dai benedettini dell’abbazia di san Vittore di Marsiglia, stabilitisi nel Campidano meridionale tra la fine dell’XI e inizio del XII secolo, i quali contribuirono notevolmente allo sviluppo del villaggio rurale. La prima attestazione scritta della chiesa di Santa Maria di Sibiola è invece del 1215 e quest’ultima risulta tra i possedimenti degli stessi Vittorini di Marsiglia nel 1338.
La facciata è molto semplice e pulita, appena ravvivata dagli interventi di restauro degli anni Sessanta. Nella parte inferiore due portali ad arco introducono in un ambiente interno suddiviso in due campate attraverso pilastri che sorreggono due volte a botte, l’una più stretta dell’altra, che corrispondono a due absidi.
Nella parte superiore della facciata si aprono invece una monofora e una bifora. Il prospetto è incorniciato da due paraste che si intersecano orizzontalmente con una serie di nove archetti pensili su peducci decorati, che corrono lungo il terminale piatto. La stessa teoria di archetti incorniciati da paraste angolari prosegue anche ai lati e nelle parte esterna delle absidi.
Secondo il tipico campionario decorativo dei”Bestiari” e degli “Erbari” medievali, i peducci sono scolpiti con motivi zoomorfi, fitomorfi e geometrici. Al centro della facciata, in alternativa al più monumentale rosone, spicca un intarsio corredato da un’incisione che recita “in nomine Domini et Mariae”.
Sul fianco sinistro è ancora ben visibile la scala d’accesso al tetto e al campanile, di cui rimangono invece solo i conci di base.
L’interno è altrettanto semplice, spogliato di tutti gli arredi: l’acquasantiera originale è oggi conservata nella parrocchiale del santissimo Salvatore, costruita tra XV e XVI secolo in forme neoclassiche e tardo-barocche. Sempre in passato, dietro l’altare maggiore era collocato il retablo delGiudizio universale, opera del XV secolo attribuita al maestro di Olzai (probabilmente Antonio o Lorenzo Cavaro). Le due tavole superstiti del dipinto sono custodite nella pinacoteca nazionale di Cagliari. Una rappresenta in basso l’Inferno con illustrazione delle pene ai dannati, il Purgatorio con san Michele arcangelo e Madonna in veste di mediatrice tra peccatori e Cristo e il Paradiso con un gruppo di anime e due angeli in preghiera ai piedi del Salvatore tra santi. Nella parte alta sono raffigurati ‘Annunciazione’ e invio dello Spirito santo. L’altra tavola raffigura i santi Matteo e Antonio abate e l‘Adorazione dei Magi’.
Lo scisma d’Oriente del 1054 creò le condizioni per una definitiva emancipazione della Sardegna da Bisanzio, assecondata dalla volontà dei giudici dei vari regni di riconoscersi nell’Occidente e consolidare i legami con il papato romano. A differenza del patriarcato di Costantinopoli, sempre più lontano non soltanto geograficamente ma anche politicamente, il papato romano poteva legittimare il potere giudicale, garantendo adeguata assistenza e supporto a fronte dei incursioni piratesche sempre più frequenti e meglio organizzate.
In quest’ottica, però, era fondamentale riqualificare il contesto isolano da un punto di vista economico, amministrativo e liturgico. Il modo migliore per favorire questo cambiamento era la complicità degli ordini monastici, che, oltre a provvedere alla cura delle anime e ai cambiamenti liturgici, si occupassero della crescita economica del territorio.
I più adatti per svolgere questo compito di mediazione culturale tra Oriente ed Occidente erano i monaci benedettini dell’abbazia di San Vittore di Marsiglia – detti Vittorini – che possedevano nel loro entourage numerosi monaci provenienti da contesti greco-bizantini.
Così, chiamati dapprima dai giudici di Gallura, nel 1063 si insediano inizialmente nella zona di Ardara, a sud dell’odierna Sassari, per poi giungere a Cagliari nel 1089.
L’arrivo di questi monaci fu accompagnata da numerose elargizioni di terre e proprietà ecclesiastiche, che questi ultimi, grazie alle loro spiccate capacità gestionali, amministrarono a dovere, assumendo un ruolo di primo piano nella scena politica culturale ed economica isolana, soprattutto nella filiera produttiva del ramo saliniero e marittimo.
Il potere dei Vittorini crebbe esponenzialmente con la cessione della chiesa di San Saturno a Càlari, con l’incarico di fondarvi un monastero e rinvigorire il culto del martire cagliaritano.
Si trattava del più importante edificio cultuale del Sud Sardegna, al quale erano connesse, tra l’altro, numerose proprietà terriere, religiose e civili, tra cui la chiesa di Santa Maria di Portu Salis, che deteneva il controllo totale delle saline e dei porti per l’imbarco del sale, la chiesa di Sant’Efisio di Nora, la chiesa di Sant’Antioco di Sulci, la chiesa di San Giovanni Battista di Assemini e tante altre.
Grazie ai Vittorini, dunque, il tessuto produttivo del Giudicato di Cagliari era destinato a crescere e diventare una tra le più importanti realtà commerciali dell’isola.
Riferimenti Bibliografici
R. Coroneo, Chiese romaniche della Sardegna
R. Coroneo, Architettura romanica dalla metà del Mille al primo Trecento
M. Rassu, Le cinquanta chiese dei monaci Vittorini in Sardegna