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Il Capodanno in Sardegna: usanze e tradizioni

Oggi il Capodanno è uno tra i momenti più attesi e carichi di aspettative attraverso il quale si saluta l’anno passato e si aspetta il sopraggiungere del nuovo, con l’augurio che sia migliore di quello precedente. In tutte le case della Sardegna la notte del 31 Dicembre si aspetta la mezzanotte per scambiarsi auguri e promesse.

Eppure fino al Medioevo il vero Capodanno sardo si festeggiava a Settembre che, non a caso, era chiamato “Cabudanni“, termine che deriva dal latino “caput anni”, ovvero, “inizio dell’anno”. La forte vocazione agropastorale dell’isola, unita al lungo periodo di dominazione bizantina, portò la Sardegna a seguire il calendario bizantino e non quello gregoriano. Nel calendario bizantino, infatti, l’anno iniziava il 1 Settembre e terminava il 31 Agosto, perciò l’intero mese venne chiamato “Cabudanni”.

A Settembre, inoltre, si svolgeva l’ultimo ciclo delle attività agricole e pastorali – in particolare la coltivazione di cereali – che precedeva il lungo periodo di quiescenza invernale della Natura. Da sempre, quindi, era il legame con la terra a condizionare notevolmente i ritmi della vita e le tradizioni del popolo sardo.

Ma sebbene il Capodanno non sia mai stata una festa particolarmente sentita, ad esso sono legate alcune usanze e tradizioni il cui scopo era quello di essere ben auguranti. Naturalmente l’immancabile mix tra cristianesimo e paganesimo ha fatto si che queste usanze si differenziassero da parte a parte.
Conosciamo molte di queste usanze grazie ai racconti di Grazia Deledda, che ha saputo tramandare un mondo antico e “primitivo” fatto di credenze popolari, riti e leggende che altrimenti, forse, sarebbero andate perse.

Biasi
Messa di notte in un’illustrazione di Giuseppe Biasi per Il Giornalino della Domenica, nel quale Grazia Deledda pubblicò alcuni suoi racconti

Una tra queste, molto diffusa nel Nuorese, era l’usanza “de su Candelàrju“, comune anche nel Nord della Sardegna, dove viene chiamata “Su candelarzu”. A Orgosolo la stessa identica tradizione era invece chiamata “Sa candelaria” . L’ultimo giorno dell’anno i bambini si riunivano in gruppi e andavano in giro per le strade a chiedere una sorta di questua per i poveri e i bisognosi, muniti di “sacchittas” o “sacchetttas”, federe bianche portate sulla spalle come bisacce. L’espressione “pedire sa candelaria”, usata ancora oggi nel centro Sardegna, significa infatti “chiedere la questua”. Tra i doni offerti in passato c’erano “sas rughittas”, piccoli pani a forma di croce e “s’accheddu”, piccoli bastoncini fatti sempre con il pane con la punta a spirale e il pane de “su capidu e s’annu”, di forma ovale con “sas ficcas” per buon augurio, dodici fori e altrettanti anellini, come a simboleggiare i mesi dell’anno che sta per arrivare. Di tutto ciò oggi rimangono solo “sas rughittas”, preparate soprattutto dalle persone più anziane e più legate alla tradizione. Secondo quanto ci racconta la Deledda nel suo capolavoro “Tradizioni popolari di Nuoro in Sardegna” – la notte del 31 Dicembre si apriva la porta ai bambini poveri e si distribuivano loro mandorle, noci, castagne, fichi secchi e nocciole.
In alcune case si faceva anche un pane chiamato “Su Candelàrju”, la cui forma era simile a quella di un uccello o di altri animali.
Un’altra usanza assai diffusa in Barbagia era quella di leggere il futuro per l’anno a venire. Le arti divinatorie, da sempre appannaggio del popolo femminile, furono aspramente condannate dalla Chiesa per tutto il periodo dell’Inquisizione Spagnola, ma non scomparvero mai del tutto, restando ancora oggi una pratica diffusa in qualche piccolo centro, esattamente come “sa mexina e’ s’ogu” (la medicina dell’occhio).
Ancora Grazia Deledda, nella sua novella “L’ospite”, racconta che tra i riti più diffusi nell’isola c’era quello di immergere due chicchi d’orzo nell’olio (ma anche nell’acqua) in modo da poterne osservare i movimenti e così interpretare ciò che sarebbe poi accaduto nei mesi a venire. I chicchi d’orzo (talvolta sostituiti con due chicchi di caffè) rappresentavano due innamorati le cui vicende, spesso, erano tormentate. Talvolta, infatti, ai due grani d’orzo se ne aggiungeva un terzo, a rappresentare un rivale o un ostacolo, per rendere più interessanti le avventure di questa strana strana danza nel liquido.

Grazia Deledda
Grazia Deledda

Inoltre, sebbene non accompagnato da celebrazioni solenni, come la Pasqua o il Natale, il Capodanno era il momento più adatto per porgere al destino importanti domande sul futuro.
Tra queste c’era naturalmente il matrimonio. Molte fanciulle in età da marito si domandavano quando si sarebbero sposate e in che modo sarebbe avvenuto il loro matrimonio. Capita questo a Juannicca, la protagonista della novella di Grazia Deledda, “Il dono di Natale”. Juannicca domanda al cuculo:

“Cuccu bellu ‘e mare,
Cantos annos bi cheret a mi cojare?”

“Cuculo bello del mare, fra quanti anni mi devo sposare?”

Infine, quando si faceva visita ai parenti o si incontravano le persone per le strade, ci si salutava con un augurio: “A Sa Noa!”, che significava “Ci vediamo nell’anno nuovo”, a cui immancabilmente seguiva l’esclamazione “Deus bollat!”, “Che Dio voglia!”.


Riferimenti Bibliografici

  • G. Deledda, Il dono di Natale
  • G. Deledda, L’Ospite
  • M. L. Wagner, La vita rustica
  • D. Turchi, Leggende e racconti popolari della Sardegna

Ulteriori approfondimenti

Orgosolo e la fine dell’anno

Capodanno in Sardegna

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