Pensata come torre di avvistamento e controllo, rivolta a nord, verso la Pianura del Campidano, diventò poi il centro di un baluardo difensivo potentissimo, per poi essere trasformata in carcere fino alla fine del XIX secolo. Il suo profilo disegna lo skyline del Castello fino a ritrovare, nella direttrice opposta, la sua gemella, la torre dell’Elefante.
Un simbolo della città, dunque, che ancora oggi ricorda un passato glorioso, anche se a tratti oscuro, caratterizzato dalla continua lotta di potenze esterne che a lungo si contesero il controllo ed il possesso di uno tra i centri più importanti del Mediterraneo.
Nel 1314 Corrado Lanza di Castromaynardo scriveva la sua relazione per Giacomo II d’Aragona, che nel 1297 aveva ottenuto in feudo un regno frammentario e tutto da conquistare, il cui centro nevralgico sarebbe diventata proprio Caralis.
Una città “munita di mura e torri che la rendono inespugnabile”, “fortezza chiave di tutta l’isola”: così appariva Cagliari all’inizio del XIV secolo. In questa descrizione comincia già a delinearsi l’importanza delle torri come elementi identificativi della città, soprattutto se vista dal mare.
Nel suo libro “Le torri di Cagliari” Paolo Bullita ne racconta all’incirca una quindicina, sottolineando come, nel loro lungo processo di continuità d’uso, esse siano state da sempre al centro dell’organizzazione, del controllo e della difesa militare, dall’epoca pisana a quella piemontese. Non è un caso, quindi, che dal XIV al XIX secolo le gli stemmi della città abbiano sempre raffigurato le torri.
Era il 1216 quando la giudicessa Benedetta di Lacon-Massa, all’epoca reggente del Giudicato di Cagliari che aveva la sua capitale nell’antica e oggi scomparsa Santa Igia, concedeva a Lamberto Visconti un’area del colle che, in pochi decenni, questi avrebbero trasformato in un vero e proprio accampamento militare: il Castrum Caralis. Decisi a rovesciare il Giudicato ed impadronirsi dei suoi territori, i Pisani cominciarono a fortificare il colle in quasi tutta la sua estensione, creando un vero e proprio Castello, dotato di torri, mura e bastioni.
Da qui alla distruzione dell’antico dominio giudicale il passo fu breve. Cominciava dal 1258, con la presa dell’antica capitale Santa Igia, il dominio di Pisa sui territori della cintura costiera sud-occidentale, nonchè la fondazione di una nuova città. Abbandonando l’antico tracciato urbanistico disegnato dai punici e dai romani, i Pisani ne trasferirono le principali istituzioni politiche, amministrative e religiose nel Castello, in modo che il potere, in tutti i suoi livelli, fosse protetto da torri e mura possenti.
Pur modificato nei secoli dal controllo aragonese, spagnolo e piemontese, il Castello ha mantenuto il tipico schema urbanistico a fuso, caratteristico delle città di impianto comunale toscano. La planimetria si articola a tre vie parallele: la “ruga mercatorum”, oggi via La Marmora, la “ruga marinariorum”, l’attuale via Canelles e la “ruga fabrorum”, l’attuale via Martini. Queste vie erano a loro volta connesse da traverse perpendicolari e confluenti a nord e a sud della città.
La città, in questo periodo iniziava, inoltre, ad essere oggetto dell’interesse insediativo degli ordini mendicanti, rivolti verso le più importanti città in espansione.
Nella seconda metà del XIII secolo, Francescani e Domenicani si posizionano ai due lati della rocca, ciascun ordine presso un nascente quartiere nuovo, nel rispetto della distanza, espressamente dettata dalle Bolle papali. I Francescani si stabilirono a Stampace e i Domenicani a Villanova.
Lo schema urbanistico si definì ulteriormente all’inizio del Trecento, quando la minaccia catalano-aragonese cominciava a farsi sempre più insistente e i Pisani dovettero difendersi da un pericolo imminente. Ed in questa difesa, un ruolo fondamentale fu giocato proprio dalla torre di San Pancrazio.
Fu edificata nel 1305, come attesta un’epigrafe posta nella parte interna, e fu progettata da Giovanni Capula “arcitector optimus”, il quale realizzò anche la gemella torre dell’Elefante e le torri del Castello di Serravalle a Bosa.
La torre, originariamente detta dell’Aquila, prese poi il nome dalla vicina chiesa di San Pancrazio – oggi conosciuta anche con i nomi di Chiesa dei Santi Pancrazio e Lorenzo o Chiesa della Madonna del Buon Cammino – documentata a partire dal 1263 e collocata lungo l’attuale viale Buoncammino.
La torre ha una pianta a “L”, è chiusa sui tre lati esposti ed aperta sul lato interno protetto dalle mura della cortina difensiva. Il lato aperto permette di vedere lo scheletro interno, costituito da 4 livelli soppalcati e collegati da scale in legno.
Con il passaggio dalla dominazione pisana a quella aragonese, dal 1326, il Castello continuò ad essere il centro del potere sovrano, ma i nuovi dominatori cominciarono ad utilizzare la torre di San Pancrazio con una nuova finalità.
Riorganizzando il sistema delle fortificazioni cittadine, gli Aragonesi ritennero quelle pisane ormai obsolete. Fu così, quindi, che molte di queste furono trasformate in carceri e luoghi di detenzione. Accadde alla torre di San Pancrazio, ma anche a quella dell’Elefante, alla Passarina, alla Tudeschina e a quella della Leona, oggi inglobata dentro il Palazzo Boyl e non più visibile dall’esterno. Chiudendo il lato aperto la torre di San Pancrazio si trasformava in una struttura parallelepipeda cieca, all’interno della quale, ogni livello, arrivava ad ospitare in condizioni particolari anche numerosi detenuti.
A documentare la situazione difficile e il sovraffollamento delle carceri ci furono numerosi resoconti, tra cui quello del generale Alberto La Marmora nel XIX secolo.
Tra i personaggi rinchiusi nella torre, Brancaleone Doria, Giovanni Antonio e Sigismondo Arquer, Girolamo Pitzolo e altri.
Nei secoli a venire si addossarono alla torre altri edifici, senza però un preciso disegno urbanistico, il che contribuì inevitabilmente al disordine generale dello spazio occupato da quella che oggi è Piazza Indipendenza.
Fin dall’epoca spagnola, inoltre, l’Estrada Avancada – oggi via Badas – era utilizzata per le impiccagioni pubbliche. Al rintocco de “sa campana mala” che annunciava le condanne a morte, i detenuti venivano condotti dalla torre alle forche, disegnando un oscuro itinerario di morte, i cui passi, scanditi dal tocco della campana, continuavano a riecheggiare nella mente dei cagliaritani anche dopo la dismissione delle carceri.
Dal 1901 al 1906 l’ingegner Dionigi Scano cominciò un recupero funzionale dell’area che prevedeva, in primis, il testauro della Torre dopo che le carceri erano state trasferite nell’area di Buoncammino.
Incaricato dal sindaco Filippo Vivanet di realizzare il primo Museo Archeologico, questi recuperò lo spazio delimitato tra la torre di San Pancrazio, il Palazzo delle Seziate e le torri Passarina e Tudeschina per realizzare un’area di passaggio che interessò anche la linea del tram che faceva capolinea davanti al Palazzo Viceregio. Il Museo fu realizzato demolendo una parte delle antiche carceri dell’Inquisizione Spagnola, comprese tra la Tudeschina e la Passarina.
La torre di San Pancrazio fu liberata dal lato chiuso in muratura e furono restaurati i soppalchi, in buona parte sostituiti con nuove assi di legno.
Oggi la torre è chiusa al pubblico per nuove campagne di restauri, ma ci auguriamo che possa presto riaprire per raccontare una storia affascinante che si lega anche ad interessanti leggende popolari che nei secoli si sono stratificate, contribuendo a connotare questo bellissimo monumento in maniera assolutamente singolare.
P. Bullita, Le torri di Cagliari
M. Rassu, Baluardi di pietra: storia delle fortificazioni di Cagliari