L’incendio è da annoverare in Sardegna tra le cause principali di regressione del patrimonio forestale. Ogni anno centinaia di ettari di macchia mediterranea, pascoli, boschi e coltivazioni vengono distrutti dalle fiamme, alimentate da venti, alte temperature e, troppo spesso, dalla mano criminale dell’uomo. Questo fenomeno, purtroppo non nuovo, ha conseguenze devastanti non solo sull’ambiente e sulla biodiversità dell’isola, ma anche sulle risorse naturali, sull’economia locale e sul delicato tessuto socio-culturale delle comunità rurali e montane. I roghi minacciano la sopravvivenza di attività tradizionali come la pastorizia, l’agricoltura e l’artigianato legato al territorio, impoverendo un patrimonio identitario già fragile. Questo problema, però, va ben oltre la perdita di paesaggi e natura: si tratta di una ferita profonda, che tocca l’anima dell’isola.
La questione degli incendi in Sardegna è un problema radicato, che da sempre si è imposto all’attenzione dei governanti: un delitto perseguito da precise norme fin dall’epoca giudicale.
Nella Carta De Logu di Eleonora d’Arborea – legge ufficiale del Regno di Sardegna fino all’introduzione del Codice Feliciano del 1827 – sono ben cinque i capitoli dedicati alla normativa sugli incendi, distinguendo tra quelli colposi e quelli dolosi. Gli “Ordinamentos de fogu” distinguono le pene relative agli incendi colposi e agli incendi dolosi.
I primi erano puniti in maniera più lieve, con ammende e la reintegrazione del danno causato. Quelli dolosi, invece, erano considerati più gravi e pertanto puniti in maniera più severa. Si distingueva tra incendio di case, punito con la pena di morte attraverso il rogo, e incendio di terreni coltivati, punito con il taglio della mano destra nel caso in cui l’incendiario non fosse stato in grado di ripagare il danno.
Per contrastare il fenomeno degli incendi, la legislazione giudicale non prendeva in considerazione solo la punizione, ma anche la prevenzione, nella convinzione che non fosse sufficiente una politica punitiva per estinguere il problema, ma risultasse doverosa una vera e propria opera di sensibilizzazione.
Le prescrizioni normative si riferivano non soltanto alle pene previste per i trasgressori, ma anche alle modalità attraverso le quali si poteva regolare la vita agro-pastorale delle comunità e dei villaggi.
Per esempio era fatto assoluto divieto di bruciare le stoppie prima dell’8 Settembre (mese di Cabudanni) ed era previsto invece l’obbligo di provvedere alla difesa del villaggio e delle aree coltivate mediante l’apertura di fasce parafuoco entro il 29 Giugno (sa die de Santu Pedru de Lampadas).
Queste norme indicano l’evidente consapevolezza della reale incidenza degli incendi sulla conservazione dei boschi, intesi come bene comune da tutelare e salvaguardare. Per questo si introduce un importante istituto giuridico – quello della responsabilità collettiva – che vedeva tutti gli abitanti dei villaggi responsabili in egual modo di fronte alla tutela del patrimonio pubblico.
In base a questo istituto, un apposito consiglio del villaggio aveva l’obbligo di indagare per trovare il responsabile dell’incendio entro quindici giorni; nel caso in cui il colpevole non venisse individuato, la responsabilità ricadeva quindi su tutto il villaggio. Ogni cittadino, quindi, pagava un’ammenda, compreso il Curatore, che non era stato capace di condurre le indagini.
L’istituto della responsabilità collettiva per la rifusione dei danni provocati dagli incendi si mantenne anche in epoca spagnola, arrivando fino a quella piemontese.
In epoca sabauda il tema degli incendi fu portato all’attenzione del governo a partire dalla seconda metà del Settecento. Si introdusse il divieto di impiegare il fuoco per eliminare la vegetazione e coltivare nuove terre, ed anche per procurare pascoli più abbondanti. Si vietò l’accensione di fuochi sotto le piante o nelle loro vicinanze, pena il risarcimento dei danni e l’ammenda. Si prescrisse inoltre l’obbligo per tutti i viandanti che accendevano fuochi sulle montagne, di assicurarsi di averli spenti prima di lasciare l’accampamento, pena il pagamento di un’ammenda, oltre il risarcimento dei danni.
Le norme venivano tuttavia osservate solo in parte. In alcune zone come la Gallura, le regole venivano aggirate attraverso il pagamento di una “oveja de fuego”, ovvero la corresponsione di una capra al feudatario in cambio del permesso di accendere fuochi durante il periodo estivo, quindi prima dell’8 Settembre.
Importanti novità furono introdotte dal re Vittorio Emanuele, nell’ottica del rimodernamento dell’economia agricola e delle riforme fiscali e tributarie che interessarono il Regno di Sardegna. Il sovrano introdusse l’obbligo di ricevere apposita autorizzazione del governatore per utilizzare i fuochi nei campi, pena la perdita a carico del contravventore della superficie coltivata e del suo prodotto, a favore del Monte Granatico.
Alle novità introdotte da Vittorio Emanuele si aggiunsero poi ulteriori norme contenute nelle Leggi civili e criminali del Regno di Sardegna, o Codice Feliciano, che prevedevano la pena di morte per chiunque avesse appiccato dolosamente il fuoco a case, magazzini od altri edifici e la galera per chi volontariamente avesse incendiato piante e legnami ammassati, nonché a vigne, oliveti ecc.
Il passaggio dalla dominazione spagnola a quella sabauda non fu semplice per la popolazione. Sotto i Piemontesi il Regno di Sardegna conobbe un’epoca difficile, fatta di tumulti e proteste spesso soffocate nel sangue. Numerosi moti popolari, come la rivolta de “Su connottu“, scaturivano da un malcontento sociale dovuto a riforme particolarmente repressive, come il celebre Editto delle chiudende, promulgato nel 1820 dal re Vittorio Emanuele di Savoia, nell’ambito della politica di riorganizzazione agraria del Regno di Sardegna.
L’Editto delle Chiudende ha inaugurato una lunga storia di conflitti per la terra, esclusione sociale e frammentazione della gestione ambientale, autorizzando, di fatto, i proprietari terrieri a recintare le terre loro assegnate o possedute in forma collettiva o d’uso civico, trasformandole così in proprietà privata esclusiva.
Queste recinzioni, chiamate appunto chiudende, potevano essere realizzate con muretti a secco, siepi o fossati. Il provvedimento era ispirato ai modelli delle “enclosures” inglesi e aveva vari scopi, tra cui quello di modernizzare l’agricoltura, stimolare la produttività e rafforzare la proprietà privata in un’ottica liberale e borghese. Tuttavia l’editto distrusse il sistema degli usi civici (diritti collettivi su terre, boschi e pascoli) in uso fin dai tempi più remoti, eliminando le pratiche di mutuo aiuto e gestione collettiva delle risorse, sostituite dalla logica della proprietà privata individuale.
L’ingiustizia percepita e la disperazione alimentarono insurrezioni popolari e crearono i presupposti per la nascita delle faide familiari e del banditismo sociale, visto da molti come una forma di ribellione contro i soprusi. Nacquero figure semi-eroiche tra i banditi, spesso sostenuti dalle comunità come vendicatori popolari che lottavano contro il dispotismo sovrano a favore del popolo, sempre più sfiduciato e ostile.
Al di là di questi fenomeni, la frammentazione della proprietà agricola e la fine della gestione collettiva hanno portato al graduale abbandono di molte aree rurali e alla riduzione del pascolo controllato, che un tempo aiutava a tenere pulito il sottobosco. Questo ha aumentato il carico di materiale secco e infiammabile, rendendo più facili e devastanti gli incendi.
A questo si aggiungono inevitabilmente gli interessi economici e politici, come la creazione di nuovi pascoli, la speculazione edilizia (specialmente in zone turistiche), la concessione di appalti per il rimboschimento o l’antincendio.
In conclusione, la perdita del controllo comunitario sulla terra ha reso quindi più facile manipolare o sfruttare il territorio. Tutti questi elementi sono fattori di rischio strutturale che favoriscono – ancora oggi – l’uso del fuoco come strumento di protesta, controllo o distruzione.
G. Lupinu, Carta de Logu di Eleonora d’Arborea
A. Pinna, Incendi