Per quanto sia stato l’esercito sardo a soccombere, quel che viene celebrato non è la disfatta in sè, piuttosto la resistenza, il coraggio, l’impegno di un popolo che cercava disperatamente di sottrarsi ad un destino avverso. Era il 30 Giugno del 1409, una data che fu a lungo ricordata nelle cronache come uno tra i momenti più infausti della storia della Sardegna.
La battaglia, in sostanza, segnò la fine dell’ultimo regno sardo arrivato alle soglie dell’Età Moderna – il Giudicato d’Arborea -, decretando il passaggio definitivo dell’intera isola alla Corona d’Aragona che, secondo quanto stabilito da papa Bonifacio VIII, avrebbe avuto di diritto di governare l’isola.
Era il 5 aprile del 1297 quando Benedetto Caetani, alias Papa Bonifacio VIII, tramite la bolla “Ad honorem Dei onnipotenti Patris”, creava un fantomatico “Regnum Sardiniae et Corsicae” e lo trasformava in un feudo da assegnare al re Giacomo II d’Aragona, in cambio di un consistente censo annuo. Con questa manovra la Santa sede riusciva ad eliminare una tra le più grandi cause che contrapponevano le due Repubbliche Marinare di Pisa e Genova – il controllo delle rotte commerciali che passavano per l’isola – e, contemporaneamente creava i presupposti, per mettere fine alla ormai ventennale guerra del Vespro in Sicilia, che contrapponeva Aragonesi e Angioini.
Tuttavia, la creazione del Regno portava con sè una questione non di poco conto: la Sardegna non era affatto libera, ma totalmente frammentata in una miriade di territori che si erano venuti a formare a seguito del delicato sistema di alleanze e battaglie che avevano già portato alla fine dei tre Giudicati di Cagliari, Torres e Gallura. A ciò si aggiungeva la presenza centrale dell’ultimo Giudicato superstite – il Regno d’Arborea – che segretamente coltivava il sogno di una Sardegna unita e indipendente sotto l’egida della casata dei Bas-Serra.
A conti fatti, quindi, il papa concedeva al sovrano d’Aragona la cosiddetta “licentia invadendi” ovvero il permesso di conquistare con la forza tutte quelle terre, sottraendole, quindi, alle entità statali che in quei territori già esistevano. La presa della Sardegna, quindi, si rivelava un’impresa non facile e spettava all’Infante Alfonso IV il compito di realizzarla attraverso l’occupazione dei territori del Cagliaritano, della Gallura e parte del Logudoro. La presa di questi territori avvenne tra il 1323 e il 1326, ma a causa delle successive e continue guerre col confinante Regno d’Arborea, il “Regnum Sardiniae et Corsicae” si era ridotto alle sole città di Cagliari, Alghero e Luogosanto.
La guerra tra i due contendenti ebbe inizio nel 1353, quando il giudice Mariano IV de Bas-Serra, stanco di una politica ambigua e scellerata portata avanti dal sovrano d’Aragona Pietro IV, non rinnovò il voto di fedeltà alla Corona stipulato nel 1323 da suo padre Ugone II che, per assicurare un governo di pace, aveva inviato l’esercito giudicale nella battaglia di Villa di Chiesa (attuale Iglesias) a sostegno di quello aragonese.
La posizione di Mariano IV, sovrano amato dal popolo, voleva fortemente sottrarre i territori conquistati dall’Aragona e riannetterli al Giudicato, in modo da creare una Sardegna indipendente. Ma la sua morte, avvenuta nel 1376, stroncò questo sogno di gloria, lasciando il peso della guerra ai figli: prima Ugone III (assassinato in una congiura di palazzo nel 1383) e poi da Eleonora d’Arborea, quest’ultima reggente del figlio primogenito Federico (morto in giovane età ) e del secondogenito Mariano V.
Con la morte di Eleonora, avvenuta tra il 1403-4, la guida del regno passò in mano al secondogenito, Mariano V, che, insieme al padre Brancaleone Doria, continuava la guerra contro i Catalano-Aragonesi. Mariano V scomparve misteriosamente nel 1407. Della sua morte fu sospettato l’ambiguo Brancaleone, già incarcerato nella Torre di San Pancrazio a Cagliari per volere degli aragonesi poichè ritenuto un traditore della Corona. Questa situazione segnò l’inizio di un periodo oscuro per il Regno d’Arborea che, in mancanza di un giudice diretto o un reggente, risultava quantomeno esposto. A quel punto il Parlamento (chiamato Corona de Logu), nominò Leonardo Cubello, podestà di Oristano imparentato con la famiglia dei Bas-Serra, “giudice di fatto”, estromettendo totalmente la figura di Brancaleone, che fu costretto a ritirarsi nel castello di Monteleone Roccadoria.
I regni sardi medioevali, chiamati comunemente Giudicati, vengono a formarsi sulle ceneri delle precedenti divisioni amministrative del governo bizantino. In mancanza di documenti relativi alla transizione tra l’epoca bizantina e l’organizzazione giudicale, la data di fondazione dei quattro giudicati oscilla tra l’VIII-X secolo e il X-XI secolo. I Giudicati erano stati superindividuali, per questo considerati “perfetti”, e non patrimoniali, in quanto non appartenevano al re ma al popolo. Ogni Giudicato era retto da un Giudice, coadiuvato nel governo dalla Corona de Logu (il Parlamento), composta da un consiglio di maggiorenti eletti dal popolo suddiviso in divisioni amministrative più piccole – Curatorie – a loro volta governate da un “curadore”.
L’elezione del Giudice seguiva il più possibile la linea maschile della casata regnante originaria, e solo in caso di mancanza diretta di eredi maschi, diretti o indiretti, venivano prese in considerazione le donne della famiglia, ma soltanto come portatrici di titolo per i figli, o per il marito, esercitando il ruolo di “giudicesse reggenti” o luogotenenti, durante l’assenza o la minore età del giudice titolare. Adelasia di Torres, Benedetta di Massa ed Eleonora d’Arborea sono le più celebri.
Nel frattempo, il regno veniva rivendicato da diversi pretendenti, tra i quali il francese Guglielmo III, visconte di Narbona. A quest’ultimo il Parlamento riconobbe la legittimità dei diritti sul governo del Giudicato. Tuttavia, egli non riuscì mai a conquistare la stima dei suoi soldati e a dare al suo esercito una vera organizzazione militare; complice il poco tempo prima della battaglia, forse, oppure la diffidenza dell’esercito giudicale nei confronti di un nuovo capo. Tuttavia questa poca organizzazione fu senz’altro una tra le cause per la triste disfatta. Nel 1409, con l’obiettivo di evitare uno scontro diretto con l’Aragona, egli cercò di trovare un accordo di pace con i nemici, indispettendo non poco la posizione dei sardi.
Approfittando di questa debolezza, Martino il Giovane propose delle condizioni di pace che sapeva perfettamente non sarebbero mai state accettate, rendendo palese l’imminenza di uno scontro armato. Fu il visconte di Narbona a scegliere Sanluri come teatro della battaglia. I villaggi limitrofi erano stati abbandonati, rendendo ancora più vulnerabile la linea del confine, collocata nei pressi del Castello di Sanluri.
Il 26 Giugno Martino di Sicilia, dopo un breve soggiorno a Cagliari, riunì l’esercito e cominciò il cammino verso Sanluri. Dopo tre giorni raggiunse le campagne tra Sanluri e Furtei, costeggiando il Rio Mannu. Lo scontro avvenne l’indomani: la domenica 30 giugno 1409 presso una collina prossima all’abitato che, ancora oggi, è chiamata “Su bruncu de sa battalla”. A questo punto l’esercito sardo si divise in due tronconi: il più numeroso, composto da oltre settemila uomini, nel disperato tentativo di opporre un ultima difesa contro i Catalani , venne accerchiato nel luogo che ancora oggi viene chiamato “s’occidroxiu”, ovvero il macello. Qui avvenne un barbaro scontro che decimò i soldati, costretti a soccombere mentre assistevano alla violenta uccisione dei compagni in un luogo dal quale non avrebbero potuto trovare una via di fuga. L’altro troncone si divise ancora in due parti: la più numerosa, capeggiata da Guglielmo III, fuggì verso il castello di Monreale, riuscendo cosi a salvarsi; gli altri, invece, si rifugiarono dentro il borgo fortificato di Sanluri, che però venne espugnato e raso al suolo dalla fanteria catalana. All’interno del borgo il massacro continuò incessante, senza risparmiare nè donne, nè bambini. Molti furono fatti schiavi e deportati in Catalogna.
A qualche giorno dalla battaglia, Martino fece rientro a Cagliari, scosso dai primi sintomi di una febbre malarica che, appena un mese dopo, lo uccise. Una leggenda vuole che ad ucciderlo fu la vendetta di una donna sanlurese, passata alla storia come “la bella di Sanluri”, che il re aveva voluto come sua schiava e che giacque con lui fino alla morte, costringendo il suo corpo già fiaccato dalla malattia, a ripetute notti di passione.
Che sia stato il troppo amore o la malaria a provocarne la morte, il re di Sicilia fu sepolto nel transetto sinistro della Cattedrale di Cagliari, dove ancora oggi fa bella mostra il suo grandioso ma lugubre mausoleo. Francesco Cesare Casula ricorda che la morte di Martino il giovane fu una vera tragedia per la sua famiglia e per il suo popolo, perchè con lui si spegneva la “catalanità dei re d’Aragona” e, di conseguenza, si esauriva la forza vitale della grande confederazione iberica che nel 1479, tramite Ferdinando II il Cattolico, del casato Castigliano dei Trastamara, perdeva la sua sovranità e la sua identità nazionale, sino a diventare un’entità subordinata della corona di Spagna.
Ulteriori riferimenti