A condannare la stregoneria era soprattutto la Chiesa, il cui principale compito di difesa della fede dai miscredenti, si era fatto ancora più arduo nel delicato passaggio tra il Medioevo e l’Età Moderna.
Era il 1492 quando il temibile Thomas De Torquemada nominava Sancho Marin inquisitore del Tribunale del Sant’Uffizio di Cagliari . Cominciava per la Sardegna uno tra i periodi più oscuri – quello della Santa Inquisizione Spagnola – destinato a cambiare per sempre le sorti dell’isola e modificare la mentalità popolare, rivoluzionando la concezione della figura femminile nella società del tempo.
L’avvento dell’Inquisizione in Sardegna segnava la lotta, feroce e incontrollata, contro le streghe, il cui timore atavico cavalcava l’onda della superstizione e dava corpo all’incubo di una metamorfosi tra l’umano e il diabolico, la cui sintesi perfetta era costituita dalla donna.
“Attente a vivere cristianamente: non siate streghe, perchè se siete streghe il Sant’Uffizio vi prenderà e vi brucierà”.
Con queste parole Don Pietro Aymerich, governatore del Logudoro, ammoniva tutte le donne.
Guaritrici, veggenti, rabdomanti, le streghe erano donne dotate di una sensibilità superiore verso i poteri della Natura, nonchè antiche depositarie di un sapere rituale tramandato da generazioni. Eppure, nella fantasia popolare nutrita dalla continua minaccia del vivere cristianamente, queste donne diventavano creature malvagie e assetate di sangue. “Cogas”, “majarzas”, “bruxias”, “surbiles”, così vengono chiamate le streghe nella Sardegna tra i secoli XVI e XVIII.
Donne malvagie, capaci di trasformarsi in gatti o uccelli rapaci, sedurre uomini dormienti o succhiare il sangue dei neonati, ma anche preparare decotti di erbe o amuleti (“pungas”) capaci di sferrare colpi mortali ad esseri innocenti. Così la superstizione si sostituiva alla ragione, trasformando le donne in creature diaboliche, in streghe. Quelle streghe che – citando le parole di Voltaire – hanno smesso di esistere quando si è smesso di bruciarle.
Dominica Figus, Maria Murgia, Angela Borras, Teresa Serra, Caterina Corellas, Catalina Lay, Julia Carta sono solo alcune delle tante donne accusate di stregoneria nella Sardegna spagnola. E nei loro confronti il Sant’Uffizio attuò delle severe condanne, la cui efferatezza culminò spesso con il rogo. Sotto tortura tutte confessarono le loro colpe: aver giaciuto con il demonio, aver praticato rituali orgiastici ed aver custodito il demonio dentro un’ampolla.
La tortura, autorizzata formalmente da Papa Sisto IV nel 1478 con la bolla Exigit sinceras devotionis affectus, era lo strumento più efficace per estorcere una confessione. Con la stessa bolla, tra l’altro, Sisto IV concedeva al Regno di Castiglia il privilegio della gestione dell’Inquisizione. Ma il vero inizio delle persecuzioni a danno delle donne fu sancito dalla pubblicazione del Malleus Maleficarum ad opera dei domenicani Jacobus Sprenger ed Heinrich Insitor Kramer, scritto nel 1486 e pubblicato nel 1487. Si tratta di un’opera fortemente misogina, un vero e proprio trattato di demonologia nel quale si indagava la presenza del diavolo tra gli uomini e la sua complicità con le streghe, delle quali si elencavano tutti i possibili malefici e le pratiche perverse. In breve tempo il Malleus Maleficarum diventò un vero e proprio “manuale del perfetto inquisitore”, spiegando come scovare le streghe, come interrogarle e come torturarle. Ciò dava piena attuazione ad un’altra bolla papale – la Summis desiderantes affectibus – promulgata nel 1484 ad opera di Innocenzo VIII, nella quale si era già pienamente espressa la volontà da parte della Chiesa di liberare l’Europa dall’eresia.
Tra le torture, quelle più comunemente utilizzate contro le streghe erano il cavalletto, la carrucola, la sedia chiodata, lo schiaccia pollici e lo schiaccia seni.
Sia il cavalletto che la carrucola provocavano lo stiramento degli arti superiori ed inferiori per mezzo di congegni a ruota. Le corde erano legate ai polsi e alle caviglie ed azionate manualmente fino a raggiungere diversi livelli di intensità. La sedia chiodata, invece, veniva utilizzata per legare il condannato nudo per mezzo di cinghie che man mano venivano strette fino a far penetrare i chiodi nelle carni. Queste torture provocavano lesioni gravi e malformazioni fisiche permanenti alle quali difficilmente si riusciva a sopravvivere, portando la vittima a fare qualsiasi tipo di confessione pur di far cessare il dolore.
A Cagliari le prigioni e le camere delle torture erano ubicate in una zona periferica, di cui si ha testimonianza in vari documenti, chiamata “Is Istelladas”, attualmente compresa nella zona di via Bacaredda, dove rimane menzione nella targa della via San Rocco. Altre carceri si trovavano nel quartiere Castello, soprattutto nelle torri pisane di San Pancrazio e dell’Elefante, nella torre della Leona e nelle cavità attualmente comprese nel Bastione dello Sperone. A Sassari l’attuale Piazza d’Italia ospitava il Castello Aragonese, sede del tribunale dal 1565 dopo il trasferimento da Cagliari. E ancora Aritzo, Seui, Castelsardo, Alghero e tanti altri luoghi furono teatro di condanne e prigionia per molte giovani donne accusate di aver perso la fede, o, forse, di non averla mai avuta.
Ogni città aveva il proprio luogo deputato per l’autodafè – il complesso ed articolato cerimoniale punitivo pubblico adoperato dall’Inquisizione Spagnola – che talvolta culminava con il rogo. Nel quartiere Castello a Cagliari le condanne pubbliche si svolgevano nella Plaza Mayor, attuale piazza Palazzo, dove, al cospetto della cattedrale, l’oscura potenza del fuoco avrebbe bruciato ogni residuo d’immoralità.
Riferimenti Bibliografici