La sua nascita profetizzata, il suo ruolo di sovrana forte ma giusta, la sua politica estremamente moderna che emerge dalla revisione della Carta de Logu – il codice legislativo del Giudicato – sono tra gli aspetti più noti e ancora oggi associati al suo ricordo.
Eppure, sebbene la figura di Eleonora rappresenti un bagliore nell’oscurità dei Giudicati, rimane ancora irrisolto il mistero del suo volto.
Busti in pietra, presunti ritratti ed immagini evocative della sua effigie si trovano oggi sparsi per la Sardegna, ma nessuno sembra chiarire inequivocabilmente che aspetto avesse la donna più importante del Medioevo.
Una tra queste immagini si trova a San Gavino Monreale, nella chiesa di San Gavino Martire, in uno dei peducci dell’abside. Fu individuata nel 1981 dal professor Francesco Cesare Casula, che ipotizzò una sorta di “pantheon del casato dei regnanti d’Arborea”. Oltre alla figura della giudicessa Eleonora, infatti, lo storico ipotizzò la presenza di suo padre Mariano IV, suo fratello Ugone III e suo marito Brancaleone Doria.
Un’altra immagine fu scoperta nel 2010 durante i restauri dell’antica casa Atzori-Melis a Mogoro. La chiave di volta di uno degli archi mostra il busto di una donna, identificata come Eleonora sulla base del confronto con il busto di San Gavino Monreale. L’accostamento tra le due effigi permette di rilevare alcuni particolari interessanti, come se l’una fosse servita da modello per l’altra o entrambe avessero attinto da un modello comune. Difficile a dirsi.
Le due immagini mostrano una donna con i capelli lunghi, lisci e sciolti con scriminatura centrale ricadenti sulle spalle, e una deturpazione, simile ad una cicatrice, sul lato destro del volto.
Questo ha permesso di ipotizzare che la giudicessa avesse il viso sfigurato per una porzione anche consistente, che si estende dal sopracciglio al labbro, interessando anche l’occhio.
Nell’effige di Mogoro la cicatrice si presenta come una vasta depressione dei tessuti della guancia destra che sembra quasi scavata dal sopracciglio fino alle labbra. L’avvallamento del tessuto cutaneo sembra tirare verso il basso l’occhio, che appare leggermente obliquo e anche il labbro superiore destro sembra coinvolto da una lesione, se non addirittura leporino. Nel busto di San Gavino Monreale, invece, la presunta cicatrice è rappresentata mediante un segno ovale, sempre sul lato destro del volto, che ugualmente coinvolge l’occhio estendendosi dal sopracciglio al labbro.
Nel suo libro “Eleonora regina del regno d’Arborea”, Francesco Cesare Casula ipotizza una deturpazione causata da un incidente con dell’olio bollente avvenuto all’età di sei anni nelle cucine del Castello di Burgos, una delle residenze della corte giudicale. Lo storico ipotizza che la piccola Eleonora, avvicinatasi troppo alla pentola attratta dallo sfrigolio dell’olio caldo, avrebbe accidentalmente subito l’ustione provocata da un grosso schizzo che le avrebbe ferito irrimediabilmente la guancia destra.
La questione della cicatrice di Eleonora è stata affrontata anche su un piano clinico, portando alla luce nuove ipotesi. Il chirurgo Paolo Santoni Rugiu, fondatore della scuola pisana di Chirurgia Plastica ed esperto di lesioni, avanza la diagnosi secondo cui la giudicessa fosse afflitta da un angioma misto o tumore benigno della cute.
Non sembra essere dello stesso avviso del professor Casula la studiosa e saggista Bianca Pitzorno, che nel suo libro “Vita di Eleonora d’Arborea” sostiene che non sia possibile riferire con assoluta certezza il segno ovale del busto di San Gavino e l’avvallamento del busto di Mogoro ad una scelta voluta dai lapicidi. A suo parere, infatti, è decisamente singolare che solo Eleonora in tutta la ritrattistica europea del Medioevo abbia goduto di un realismo fisionomico tale da far avvertire come necessario un segno di riconoscimento, tanto più una cicatrice, dettaglio abbastanza comune a molti condottieri, principi e re ritratti sulle tavole o nella pietra. A supporto della sua tesi, la Pitzorno ricorda che nel testamento di Ugone d’Arborea, nonno di Eleonora, esisteva una clausola valida solo per le donne “reggenti”, ovvero coloro le quali – come nel caso della nostra giudicessa – assumevano il controllo temporaneo del giudicato. Tale clausola precisava che la reggenza del Giudicato poteva essere assunta solo da una donna che non avesse difetti fisici o malformazioni evidenti.
Tuttavia, attualmente, gli studiosi propendono per avvalorare l’ipotesi dell’incidente, poiché il segno sul volto della presunta Eleonora appare simile ad una cicatrice ipertrofica e sfrangiata con retrazione sui tessuti circostanti, traccia evidente di una grave ustione.
Tuttavia, a prescindere dall’origine e dalla reale presenza di questa cicatrice, rimane il fatto che Eleonora arrivò al matrimonio ad un’età decisamente atipica per le donne del Medioevo, soprattutto per le regine. La giudicessa, infatti, aveva 36 anni quando sposò il famigerato Brancaleone Doria. Anche la chioma sciolta e fluente, abbastanza atipica come acconciatura nel XIV secolo, potrebbe essere stato un espediente adottato per occultare in parte il suo viso deturpato.
Ma se il lapicida di Mogoro sembra più realista nella rappresentazione della regina, senza tralasciare i particolari esteticamente meno gradevoli, lo scultore di San Gavino sembra mosso da intenti iconografici maggiormente celebrativi, seppur anch’egli non abbia tralasciato un particolare così rilevante come la cicatrice.
Fu proprio lo scopritore del busto di Eleonora – il già citato prof. Francesco Cesare Casula – a ipotizzare per la chiesa di San Gavino un ruolo molto importante per la famiglia Bas-Serra, paragonandolo ad una sorta di “Pantheon sardo”.
Infatti, secondo lo storico, oltre al busto di Eleonora, il cui volto è appunto riconoscibile dalla cicatrice, si troverebbero scolpiti – come si è detto – altri importanti membri della casata.
La costruzione della chiesa fu voluta intorno al 1347, da Mariano IV e il completamento si deve, forse, proprio ad Eleonora. La chiesetta sorge vicino al castello di Monreale e non lontano dal castello di Sanluri, due luoghi assai cari ai giudici arborensi e, secondo alcune leggende, perfino collegati da un sottopassaggio. Secondo le stesse leggende, inoltre, al di sotto della chiesa esisterebbe una cripta dove sarebbe stata sepolta la giudicessa.
Ma se la chiesa di San Gavino Martire rappresentava un luogo “ufficiale” per i giudici, Casa Atzori-Melis, invece, poteva essere una dimora privata, non istituzionale come i castelli, dove la giudicessa soggiornava per brevi periodi per spostarsi più comodamente da un luogo all’altro. Questa funzione secondaria e sicuramente non ufficiale della dimora, potrebbe spiegare come mai l’artista di Mogoro abbia concepito l’immagine di una figura non idealizzata ma quasi un vero e proprio ritratto.
Del resto anche le cronache e i resoconti dell’epoca riferiscono che Eleonora non si mostrava facilmente in pubblico, contribuendo a contornare la sua figura di un alone leggendario. Tutti questi elementi, quindi, potrebbero avvalorare la tesi della cicatrice sul volto della donna più famosa della Sardegna.
Le immagini più rappresentative della giudicessa in epoca moderna sono quelle che derivano dai dipinti. Tra questi, in particolare, un presunto ritratto, a lungo tempo ritenuto veritiero, eseguito dal pittore Bartolomeo Castagnola, che in realtà raffigurerebbe Giovanna “la Pazza”. Il Castagnola era un pittore manierista di scuola napoletana residente e attivo a Cagliari, il cui nome è presente in vari documenti d’archivio. Nel 1859, in un clima di ricostruzione nazionale tipico del patriottismo romantico, un ignoto cultore di storia della Sardegna entrato in possesso del dipinto, vi scrisse in calce D(OM)INA LEONORA.
Senza entrare nel merito della buona fede dello studioso, probabilmente mosso dallo spirito di esaltazione delle glorie giudicali, ritenne che il ritratto fosse addirittura coevo, contribuendo a diffondere questo equivoco. I dipinti che raffigurano Eleonora a partire dall’Ottocento si sono infatti ispirati al ritratto del Castagnola. Tra questi, in particolare il cagliaritano Antonio Caboni nel 1881 ha realizzato un ritratto oggi custodito al Castello di Sanluri. Alla stessa iconografia si ispira anche il pittore Antonio Benini che rappresenta il matrimonio tra la giudicessa e Brancaleone Doria.
Sulla falsariga del dipinto cinquecentesco di Giovanna “la pazza”, quindi, Eleonora è stata trasformata in una donna avvenente ed elegante, fino a raggiungere le fattezze di una vera e propria regina guerriera, come nel monumento realizzato nel 1881 dallo scultore Ulisse Cambi per l’omonima piazza Eleonora di Oristano. Lo stesso sapore celebrativo accomuna il dipinto di Domenico Bruschi nella Sala del Consiglio del Palazzo Viceregio.
Il dipinto –raffigurante Eleonora d’Arborea con abiti ottocenteschi nell’atto di promulgare la Carta de Logu al cospetto dell’intera corte giudicale – si inserisce pienamente all’interno di un programma celebrativo della storia della Sardegna, rivista entro un’ottica nazionalistica.
Rispetto ai busti medievali, queste immagini sono il frutto dell’idealizzazione romantica di un personaggio storico rappresentativo di un’epoca cruciale. La cicatrice è ormai scomparsa, le fattezze sono quelle di una donna elegante e al tempo stesso severa, dotata di grande fascino e bellezza.
A questo proposito dobbiamo ricordare che nel corso dell’Ottocento gli scritti e i saggi sulla Sardegna ad opera di illustri intellettuali quali Giuseppe Manno, Pietro Martini, Alberto La Marmora e tanti altri furono tantissimi, giustificati da una instancabile ricerca storiografica tra gli archivi e le biblioteche di tutta l’isola.
Dietro la volontà di raccontare la storia sarda si nascondevano intenti d’esaltazione patriottica che, spesso, sfociarono in veri e propri falsi storici. Come non ricordare, ad esempio, la vicenda delle false pergamene di Arborea, con cui, a partire dal 1845 e fino al 1870, si coltivò il sogno di una rivalsa ispirata dall’amor patrio.
Con lo stesso spirito si trasformò una statua ellenistica – la Grande Ercolanese – nell’eroina dell’indipendenza sarda.
[racconto la storia della Grande Ercolanese in questo articolo]
In questa nuova mitizzazione romantica dal sapore patriottico, dunque, non c’era posto per la realtà storica e il personaggio di Eleonora si caricava di nuovi contenuti simbolici e di nuove rivendicazioni indipendentiste. Ed ecco che improvvisamente la giudicessa diventava il giusto precedente per legittimare l’idea di quelle nobili aspirazioni autonomiste che accomunavano la maggior parte degli intellettuali ottocenteschi. E non è un caso che attorno alla sua aura si sia venuta a creare una vera e propria leggenda, goffamente supportata dalla falsificazione storica.
La presenza di una regina giusta e determinata, che guidava una Sardegna indipendente che non si piegava ai soprusi, rappresentava il giusto impulso per riscrivere una storia eroica e degna di essere raccontata.
Ma se l’aspetto fisico di questa donna forte e indipendente rimane ancora oggi un mistero, quel che è certo – parafrasando le parole di Bianca Pitzorno – è che Eleonora fu l’ultima regnante indigena dell’isola, capace di radunare sotto un’unica identità di popolo genti diverse che per la prima volta sotto la sua guida si riconobbero come entità sociale e culturale, lottando contro il popolo invasore per ristabilire l’unità “nazionale”.
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Riferimenti Bibliografici