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Il riso sardonico fra tradizione e archeologia

Un’espressione innaturale del volto, paragonabile ad un sorriso forzato, molto simile a quella delle maschere fittili ritrovate nei contesti funerari punici. Il riso sardonico, secondo alcuni studiosi, potrebbe essere un antico retaggio sopravvissuto nei secoli e legato ad antiche pratiche rituali sacrificali.


Con il termine “riso sardonico” ci si riferisce ad un particolare spasmo muscolare prolungato che coinvolge i muscoli facciali contraendoli in una forma simile ad una sorta di ghigno.

Tutt’oggi l’aggettivo sardonico viene usato come sinonimo di sarcastico, provocatorio, amaro. Ne parlano Omero, Cicerone, Platone, Virgilio ed altri ancora, ognuno con la medesima accezione.

Secondo numerose fonti greche e latine (Timeo di Tauromenio, Eliano e Demone di Palestrina), gli antichi padri di Sardegna erano soliti sacrificare gli anziani in onore del dio Crono, lanciandoli da un dirupo. Si trattava di un’uccisione rituale preludio di una cruenta, ma necessaria, prassi legata alla sopravvivenza della comunità. E Il passaggio dalla vita alla morte veniva esorcizzato attraverso un preciso rituale, il riso sardonico, appunto, che consisteva in una risata forzata provocata dall’ingestione di un’erba, detta “erba sardonica”. Secondo Pausania si trattava della cicuta, ma oggi si propende per l’euforbia.

L’isola è inoltre indenne da ogni specie di erbe velenose  e letali, ad eccezione di una che assomiglia al prezzemolo, la quale, si dice, faccia morire ridendo coloro che la mangiano…”

Chi ingeriva il lattice della pianta, amaro come il fiele, vedeva contrarsi immediatamente il volto in un’espressione innaturale e fissa nella quale le sopracciglia si allargavano, gli occhi si stiravano e la bocca si apriva come in una grottesca risata.

A questo punto le domande sono tante. Chi ingeriva l’erba? Chi praticava il rituale? Perché?

Nel passaggio da Timeo a Demone si avvertono alcune discordanze circa l’utilizzo rituale dell’erba sardonica. Secondo Timeo erano i figli degli stessi anziani sacrificati a compiere il geronticidio e ad assumere il lattice della pianta, strofinandolo sulle labbra, mentre secondo Demone erano gli anziani ad assumerlo poco prima di essere gettarli nel vuoto. La risata indotta era probabilmente un modo per prepararsi ad un’impresa senz’altro non facile per entrambe le parti; un’impresa che richiedeva coraggio, preparazione e soprattutto consapevolezza e accettazione.

Il geronticidio, del resto, era una pratica diffusa nella Sardegna pre-nuragica e nuragica e, per quanto atroce, trovava spiegazione nell’esigenza di sopravvivere alla fame eliminando la causa principale. Gli anziani, incapaci di assolvere alle funzioni sociali legate al sostentamento, diventavano un peso per la comunità  che doveva sfamarli senza però avere forze sufficienti per garantire la sostenibilità  del loro mantenimento.

Il dirupo al termine del sentiero denominato “Sa Babbaiecca”, a Gairo, dove, secondo un’antica credenza popolare, venivano gettati gli anziani.

La pratica prevedeva che il padre, al compimento del settantesimo anno di età , venisse accompagnato dal figlio più grande presso un dirupo o un baratro. Raggiunto il luogo prescelto l’anziano veniva gettato nel vuoto, incontrando la morte certa.

Ancora oggi rimangono numerose tracce di quest’antica e cruenta pratica, non solo nelle leggende e nei detti popolari, ma anche nella toponomastica. A Gairo, ad esempio, esiste un sentiero campestre che conduce ad un precipizio, chiamato “Sa Babbaieca”. In sardo la parola “babbai” significa “babbo” e “eca” significa “uscita” o “entrata” da o verso un sentiero. Anche ad Urzulei esiste un picco a strapiombo denominato “pigiu de su becciu” che significa “picco del vecchio”. Ancora a Gavoi il monte Lopene (“luogo di pena”) ha diversi affacci a strapiombo che si aprono su una vista spettacolare. A Orotelli esiste un luogo denominato “S’impercadortzu de sos betzos” (il dirupo dei vecchi) che ugualmente sembra rifarsi a quest’ antichissima pratica.

Ma non solo. Secondo alcuni studi, il riso sardonico si riscontra anche in alcune maschere fittili di fattura fenicio-punica presenti non solo in Sardegna ma anche in Sicilia, nel nord Africa e nelle Baleari. Si tratta di caratteristiche maschere dal sorriso fortemente accentuato, che talvolta mostra la dentatura, e dallo stiramento degli occhi in una sorta di mezza luna. Spesso sono presenti anche decorazioni verticali a rosette, soli e lune sulla fronte aggrottata.

Maschera ghignante risalente al VI-V secolo a San Sperate, oggi custodita al Museo Archeologico Nazionale di Cagliari.

Ma a questo punto una domanda nasce spontanea. Furono i cartaginesi ad introdurre questa pratica o la mutuarono direttamente dal contatto con il popolo nuragico? Le prime attestazioni di queste maschere risalgono al VII-VI secolo a.C. in Sardegna e Sicilia. Considerando che le prime città fenicie in Sardegna si datano alla metà dell’VIII secolo, è abbastanza difficile che la popolazione autoctona avesse assimilato in cosi poco tempo una pratica rituale importata dall’esterno. Ma non impossibile. Se consideriamo però che gli esempi di maschere fittili riscontrate nelle Baleari e a Cartagine si datano tra V e II secolo a.C. è molto più probabile che sia stata l’arte punica a risentire di questo confronto.

Ma quindi furono i sardi a “copiare” dai punici oppure fu il contrario? Il mistero rimane…

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Riferimenti bibliografici


  • Simonetta Delussu, Stregoneria in Sardegna: processione dei morti e riti funebri
  • Claudia Zedda, Creature fantastiche in Sardegna
  • Dolores Turchi, Leggende e racconti popolari della Sardegna
  • Francesco Masala, Il riso sardonico

Per approfondimenti sul web

Claudia Zedda

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