Da sempre i luoghi di culto racchiudono tesori d’arte di grande bellezza che raccontano in un percorso iconografico ricco di contenuti figurativi e simbolici la storia dell’epoca e degli artisti che li hanno prodotti.
E’ il caso di una tra le opere pittoriche più belle ed enigmatiche di Cagliari, il cosiddetto Retablo dei Beneficiati, custodito all’interno del Museo Diocesano adiacente alla Cattedrale in via Fossario.
Con i suoi 2,5 metri di altezza per 2,15 metri di larghezza, questa grande pala d’altare conquista uno spazio privilegiato all’interno della Sala del Tesoro o Sala del Retablo, catturando immediatamente l’attenzione del visitatore che ha la fortuna di accedere in questa piccola ma suggestiva stanza. Il retablo, inoltre, condivide questo spazio con altre opere importantissime come il famoso Trittico di Clemente VII.
Il Retablo: storia e caratteristiche
Con il termine spagnolo “retablo” si intende una pala d’altare formata da più scomparti lignei tenuti insieme per mezzo di cerniere e racchiusi all’interno di una grande cornice architettonica. Il nome deriva dalla sua funzione liturgica, o meglio, dalla sua posizione in relazione alle funzioni liturgiche, che lo voleva posizionato dietro la mensa dell’altare (retro tabula altaris, in latino). Originariamente, infatti, il retablo aveva la funzione di tabernacolo dipinto ed era concepito per essere trasportabile e richiudibile. Gli sportelli, infatti, erano dipinti sul fronte e sul retro ed avevano una funzione didascalica: raccontare attraverso l’immagine i principali temi evangelici.
Nel corso del XIII e XIV secolo, in con la comparsa dell’arte gotica, si intuirono le enormi potenzialità divulgative di questo manufatto e si cominciarono a commissionare alle botteghe opere di maggiori dimensioni, talvolta occupando l’intera parete absidale fino al catino. Accanto alla funzione didascalica e scenografica, tuttavia, continuarono ad essere prodotti e commissionati retabli fedeli alla funzione originaria, quindi di piccole dimensioni e con sportelli richiudibili.
Grazie ai rapporti commerciali tra l’Aragona e le Fiandre, lo stile pittorico e la composizione dei retabli si arricchirono di spunti iconografici nuovi, che contribuirono a definire una struttura precisa e duratura, che – proprio attraverso la dominazione catalana della Sardegna – si irradiarono in tutta l’isola, diffondendo mode, usanze e tradizioni sempre più cosmopolite. Inizialmente i principali committenti di questi grandi dipinti erano le varie Diocesi, ma con l’avvento degli ordini religiosi – in particolare Francescani e Domenicani – le richieste si moltiplicarono. A queste si aggiunsero, nel corso del XV e XVI secolo, anche quelle delle confraternite, delle corporazioni d’arti e mestieri (in Sardegna chiamate “gremi”), dei ricchi mercanti e delle famiglie blasonate, al punto che il retablo divenne un manufatto di gran moda attraverso il quale comunicare il proprio prestigio e il proprio ruolo sociale.
I contenuti iconografici dei retabli sono legati all’arte sacra, che aveva nei Vangeli la sua fonte più autorevole, ma non mancano rimandi al mondo delle tradizioni popolari e del folklore attinti dal filone più vivace della devozione popolare.
La struttura, invece, era estremamente complessa ed articolata, assegnando ad ogni scomparto un ruolo iconografico ben preciso. Dal punto di vista compositivo, infatti, il retablo era suddiviso in registri orizzontali e verticali in cui ogni singola tavola era in perfetta relazione con l’altra.
La predella era il registro orizzontale più basso, quello che, solitamente, era collocato all’altezza della mensa dell’altare. Poteva essere formata da 5, 7 o più scomparti di piccole dimensioni di cui, quelli centrali, erano connessi alle funzioni liturgiche e potevano contenere al loro interno gli oggetti del culto. Alla predella solitamente era riservata la trattazione di scene della Passione di Cristo, ma talvolta poteva raffigurare anche scene della vita di un santo.
Sulla predella si impostavano gli altri scomparti, solitamente uno o più centrali ed uno o più laterali a seconda delle dimensioni. Il registro centrale verticale solitamente “guidava” l’intero programma iconografico, replicando uno schema che prevedeva quasi sempre la Madonna in trono con il bambino, santi o scene narrative.
La cuspide del retablo era chiamata cimasa o ático ed era riservata al tema della Crocefissione. Naturalmente potevano esistere alcune eccezioni a seconda del l’estro dell’artista o della volontà del committente che potevano optare per un tema diverso.
Il retablo in Sardegna: dai pittori catalani ai Cavaro
In Sardegna, soprattutto tra la fine del Quattrocento e nel corso del Cinquecento, si diffuse una tipologia specifica di retablo, detta “a doppio trittico”, che ne configurava per eccellenza la variante sardo-catalana. Si tratta di un polittico costituito da 6 scomparti sovrapposti orizzontalmente in due gruppi da 3.
Solitamente il pannello principale stava al centro della composizione, nel registro inferiore, e, come abbiamo detto, raffigurava nello schema più tradizionale la Madonna in trono con bambino, talvolta affiancata da altri personaggi quali angeli musicanti o gli stessi committenti che sceglievano di essere ritratti in atto di preghiera. Nel caso in cui il retablo venisse commissionato per una cappella gentilizia o per una chiesa intitolata ad un santo, il posto centrale poteva essere dedicato al santo titolare o particolarmente venerato dai committenti.
Sempre al centro, nel registro superiore, era rappresentata la Crocefissione, anch’essa con delle possibili varianti: una più “minimalista” raffigurante semplicemente il Cristo crocefisso, altre più complesse, raffiguranti personaggi secondari come i due ladroni, i soldati a cavallo, ecc.
Ai lati dei due scomparti centrali potevano essere raffigurati santi – spesso in relazione diretta con l’ordine religioso o la confraternita che commissionava il retablo – oppure scene legate alla vita di Cristo (soprattutto i temi legati alla Passione), alla vita della Vergine (Annunciazione, Natività, ecc) o all’agiografia del santo titolare del retablo (miracoli, scene di martirio, ecc).
A codificare il linguaggio dei retabli sardo-catalani furono inizialmente pittori attivi nel contesto catalano e fiammingo che seguivano le principali rotte commerciali del Mediterraneo, attratti da potenziali prospettive di guadagno. Tra questi compaiono nei vari atti notarili che regolavano la compravendita dei dipinti i nomi di Johan Mates, Joan Barcelo e Johan Figuera tra i più noti. Sul finire del Quattrocento, tuttavia, accanto alla presenza dei pittori catalani è ugualmente documentata la presenza di botteghe locali che diedero origine a vere e proprie scuole di pittura. Tra le più significative, attorno alle quali gravitarono numerosi pittori attivi nel Cinquecento, la cosiddetta “scuola di Stampace” e la bottega del non ancora identificato “Maestro di Castelsardo”. In particolare la scuola di Stampace era rappresentata da una famiglia di pittori cagliaritani – i Cavaro – attivi per alcune generazioni dalla seconda metà del XV secolo alla fine del XVI secolo. Molte delle loro opere sono custodite nelle chiese del sud dell’Isola e, soprattutto, nella Pinacoteca Nazionale di Cagliari
Il Retablo dei Beneficiati: importanza e limiti interpretativi
Proprio alla famiglia Cavaro e alla scuola di Stampace è quasi unanimemente attribuito anche il nostro Retablo dei Beneficiati. Si parla di attribuzioni sulla base di confronti iconografici e stilistici poichè non si hanno ad oggi testimonianze documentarie relative alla sua commissione. Il limite interpretativo è comune alla maggior parte dei retabli, molti dei quali sono giunti fino a noi incompleti e fuori dal proprio contesto di riferimento. Questo soprattutto in seguito allo scellerato commercio nel mercato antiquario che nell’Ottocento, ha investito questo genere di manufatti artistici. I retabli, inoltre, proveniendo dall’attività di una bottega, non erano quasi mai firmati, quindi è difficile stabilire con certezza l’assoluta paternità in mancanza di documenti specifici.
Il Retablo dei Beneficiati appartiene alla tipologia del “doppio trittico” e raffigura, al centro, la Madonna in trono col bambino fiancheggiata da due figure angeliche che tengono un drappo di stoffa; ai lati, lo scomparto a sinistra raffigura san Bartolomeo che ammonisce il demonio e quello a destra San Girolamo in preghiera; nel registro più alto, sempre nella parte centrale, la Crocefissione in cui sono presenti il Cristo e i due ladroni; ai lati della Crocefissione, suddivisa in due scomparti distinti, è raffigurata l’Annunciazione, in cui la Vergine Annunciata occupa, come da tradizione, la posizione a destra e l’Arcangelo Gabriele occupa quella a sinistra.
Nel complesso l’opera si rivela di grande impatto scenografico, sebbene sia priva di buona parte delle cornici e non abbia delle dimensioni particolarmente importanti rispetto ad altri esemplari. Osservando i diversi pannelli si coglie infatti un grande realismo, sia nella resa dei personaggi, sia nella definizione sapiente degli spazi e del chiaroscuro che enfatizza i volumi e conferisce alle figure monumentalità ed eleganza senza appesantirne il registro comunicativo. Questa sapiente resa delle forme, indubbiamente opera di un grande pittore, coinvolge l’osservatore in un efficace scambio narrativo, di cui la pittura fiamminga è stata eccellente portavoce. Si è portati ad osservare le espressioni dei volti, i dettagli delle vesti, i gesti eloquenti e i particolari dello spazio scenico.
I rimandi alla pittura rinascimentale dei grandi maestri dell’arte quattro-cinquecentesca sono notevoli: si coglie il plasticismo di Michelangelo, evidente nella resa anatomica e nella torsione muscolare dei nudi nella Crocefissione, ma anche la grazia di Raffaello, visibile nella ricercatezza delle pose del San Bartolomeo e della Madonna in trono, e infine si coglie la soave volto della Vergine e degli angeli, ma anche la soave delicatezza di Leonardo nella resa sapiente dei paesaggi e nella dolce espressione degli angeli e della Madonna che tiene in grembo il bambino. Ma non solo: i fondi dorati tipici della pittura gotica lasciano il posto a spazi aperti ed architettonicamente definiti quali scalinate, ampi soffitti e finestre dalle quali si intravedono in prospettiva paesaggi urbani e campagne.
Sebbene i riferimenti all’estetica rinascimentale siano molteplici, non conosciamo con certezza la datazione, attualmente fissata tra il 1527 e il 1550 circa, e tantomeno – come si è detto – l’attribuzione certa. La sua posizione nella sacrestia dei Beneficiati (oggi Sala del Tesoro), il cui stemma è scolpito nelle gemme pendule delle bellissime volte a crociera dell’aula, ci porta ad ipotizzare la commissione o la futura acquisizione da parte di questi ultimi. Ma la storia di quest’opera, tuttavia, sembra ancora tutta da scrivere ed ha portato alcuni studiosi ad avanzare ipotesi interessanti.
Il canonico Spano fu tra i primi a documentare la posizione dell’opera nella sua “Guida della città e dintorni di Cagliari”, giudicandola “di una sorprendente espressione e di una gran finezza nei suoi accessori”. Più tardi lo storico dell’arte Carlo Aru assegnò la tavola prima a Pietro Cavaro e poi a suo figlio Michele, individuando quindi due diverse mani. Propose il come anno utile per la datazione il 1527, relativa al celebre “Sacco di Roma” che portò a Cagliari diverse opere (tra cui il già citato Trittico di Clemente VII) e diversi artisti che poi gravitarono attorno ai Cavaro. Questa datazione fu appoggiata da altri, i quali aggiunsero un altro termine cronologico per inquadrare il dipinto, ovvero il 1538, anno della morte di Pietro Cavaro, che continuava ad essere in lizza tra i favoriti. Successivamente Raffaello Delogu attribuì il retablo direttamente a Michele Cavaro sulla base di alcuni confronti con la pala raffigurante “La Madonna del cardellino” del Retablo di Bonaria. La datazione, quindi, passò dal 1527 al 1550. Ancora, secondo quanto sostiene Luigi Agus nel suo saggio su “La scuola di Stampace”, l’opera sarebbe riferibile ad un pittore algherese di nome Giovanni Spert, che fu a Cagliari più volte tra il 1538 e il 1550 e lavorò a contatto con i Cavaro. L’attribuzione di Agus si basa sul confronto tra il Retablo dei Beneficiati e il Retablo dei Consiglieri di Cagliari, custodito nel Palazzo Municipale, a suo parere dipinto dalla stessa mano.
Infine Marcello Lostia nella sua opera “Il signore di Mara Arbarei” avanza una suggestiva ipotesi. Lo storico cagliaritano afferma che il dipinto sia legato ad un fatto realmente accaduto, che ebbe luogo a Cagliari a partire dal 1552 e che riguarda l’omicidio nel Convento di San Domenico di Girolamo Selles, fratello del magistrato civico Bartolomeo Selles. I due fratelli, invischiati in una complessa faida tra famiglie della nobiltà cagliaritana del Cinquecento, furono vittime di un brutale regolamento di conti che si concluse tragicamente con l’uccisione di Girolamo.
[Racconto la vicenda di Girolamo e Bartolomeo Selles in questo articolo].
Secondo Lostia il dipinto rappresenterebbe una sorta di denuncia del malaffare cagliaritano del XVI secolo e i due santi raffigurati nel retablo – Girolamo e Bartolomeo – sarebbero un omaggio ai due fratelli Selles. Il paesaggio che si scorge dietro l’Arcangelo Gabriele, inoltre, sarebbe identificabile con gli orti del quartiere di Villanova in cui spicca il campanile di San Giacomo, che si doveva scorgere perfettamente dal convento di San Domenico nelle sue forme cinquecentesche.
Se la teoria di Lostia fosse vera, si aprirebbe senz’altro l’ipotesi di una datazione successiva del dipinto, riferibile proprio all’epoca dei fatti cagliaritani.
Quel che è certo, però, è che il Retablo dei Beneficiati rappresenta una preziosa testimonianza di pittura sardo-catalana in un momento in cui l’arte europea era animata da un fervore artistico senza precedenti, mostrandone senza dubbio tutta l’essenza.
Riferimenti Bibliografici
G. Spano, Guida della città e dintorni di Cagliari
L.Agus, La scuola di Stampace
AA.VV, Retabli. Arte Sacra in Sardegna nei secoli XV e XVI
A. Sari, I retabli in Sardegna dal XIV al XVI secolo. Storia e iconografia
AA.VV, I retabli pittorici in Sardegna nel Quattro e Cinquecento
M.Lostia, Il signore di Mara Arbarei