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I fuochi di Sant’Antonio: una tradizione senza età 

Tra il 16 e il 17 Gennaio in tantissimi paesi della Sardegna si celebra una delle feste più antiche e attese dell’Isola: Sant Antonio Abate.

L’appuntamento segna l’inizio del Carnevale e l’uscita ufficiale delle maschere tradizionali, che sfilano per la prima volta per poi riunirsi, al cospetto della folla, intorno a “su fogarone”, il grande fuoco benedetto dal parroco del paese che brucerà per tutta la notte del 16.

Già  Grazia Deledda ci racconta che a Nuoro – sua città  natale – veniva acceso un grande fuoco e si suonava e si ballava cantando fino a notte tarda. Si preparavano per l’occasione dei dolci speciali, ed uno di questi era la “panada” di miele.

La preparazione per “Sant’Antoni e su fogu” comincia, di solito, con una settimana di anticipo, durante la quale viene raccolta la legna che verrà  bruciata nel falò e si preparano i dolci tradizionali. Tra questi, nel suo blog KoendiClaudia Zedda parla de “sa cogone de pistiddu”, una torta ricoperta di sapa con decorazioni in pasta.

La tradizione, inoltre, vuole che si compiano attorno al grande fuoco tre giri in senso orario e tre in senso antiorario intorno per sciogliere un voto o per chiedere una grazia.

“Su fogarone” a Nuoro


I fuochi prendono diversi nomi in base alla località  e al tipo di legna scelta.

Nel Nuorese Sos Focos sono preparati con legname di quercia dato in dono dalle famiglie del paese che viene accatastato nella piazza principale e acceso a tarda sera. Di solito la statua del Santo viene portata in processione per poi fare ritorno nella piazza e compiere i giri propiziatori intorno al falò.

A Mamoiada per la festa di “Sant’Antoni de su O’U” si utilizzano vecchie radici di alberi tagliati da tempo che, nel pomeriggio del 16 gennaio, danno vita al grande faló nella piazza della chiesa della Beata Vergine Assunta. Il parroco, al termine di una processione, girando per tre volte attorno al fuoco con il santo e i fedeli al seguito, benedice il fuoco. Da quel momento si accendono i fuochi dei vari rioni e si da inizio alla festa con un via vai di persone che per tutta la notte si spostano da un rione all’altro per gustare il vino nuovo e i dolci. Tra questi, per l’occasione, si preparano is “popassinu biancu e nigheddu”, “su coccone ‘in mele” e “sas caschettas”.

Le “caschettas” di Mamoiada, preparate ancora oggi secondo la tradizione presso la Pasticceria Cardenia.

Ad Ottana, dopo la funzione religiosa, nella piazza viene benedetto “Su Ogulone”, per poi lasciare spazio alla comparsa delle maschere che si radunano intorno al fuoco.

In alcune località  dell’Oristanese, invece, i fuochi in onore di Sant’Antonio Abate prendono il nome di Sas Tuvas, in quanto vengono impiegati dei tronchi cavi, riempiti con foglie di alloro e privati dei rami. Il fuoco viene acceso dall’interno regalando uno spettacolo unico, complice anche l’intenso profumo che si diffonde nell’aria.

Una variante dell’ Ogliastra è l’utilizzo, al posto dei tronchi, di frasche di corbezzolo, lentischio e altri arbusti dette Sas Frascas. Nel caso specifico di Dorgali si utilizza il rosmarino, Su Romasinu, che diffonde un profumo unico e magico.

Ma pur con queste piccole varianti, parliamo di un rituale codificato e condiviso, il cui simbolismo ancestrale si lega ad alcuni elementi tipici di un culto dalle origini pagane.

Le origini del culto di Sant’Antonio Abate, tra paganesimo e cristianesimo

Secondo la tradizione cristiana Sant Antonio – protettore degli agricoltori – morì ultra centenario il 17 Gennaio. Il cristianesimo, com’è noto, ha assunto fin dalle origini il compito di mediare il passaggio tra antichi culti agricoli pagani e nuove festività di precetto. La Chiesa, dunque, ha cristianizzato nella figura del santo eremita un culto ben più arcaico, teso a risvegliare la luce dopo il buio dell’inverno. Nell’antichità  il ciclo vitale della Natura veniva scandito attraverso rituali ben precisi atti a celebrare i vari periodi di nascita, quiescenza e rinascita a cui si legano, inevitabilmente, riti ancestrali le cui origini, tuttavia, si perdono nei secoli. Tanti sono i simboli arcaici di morte e rinascita che ancora oggi lo testimoniano, a partire dall’inseparabile maialino che accompagna Sant’Antonio nelle varie raffigurazioni iconografiche. L’animale, che nel cristianesimo diventa simbolo delle numerose “tentazioni” del santo, nei culti pagani rimanda ad Iside, dea egizia per la quale era sacro, ma anche all’antica Grecia, in particolare il culto di Demetra (Cerere per i romani), associata alla terra e alla fertilità  (il nome Demetra significa “dea madre”), nel quale si era soliti sacrificare un maiale da offrirle in dono. Non è un caso che, in numerose raffigurazioni, Demetra sia accompagnata, tra gli altri attributi iconografici, da un maialino, esattamente come Sant’Antonio Abate.

Scultura di Demetra con il porcellino e la lucerna custodita presso il Museo Archeologico di Cirò Marina (Crotone).

Il mito racconta che Persefone, figlia di Demetra, fu rapita da Ade, il dio degli Inferi. Demetra, accortasi che Persefone era scomparsa, per nove giorni corse per tutto il mondo alla ricerca della figlia sino alle più remote regioni della terra. Ma per quanto cercasse, non riusciva ne a trovarla, nè ad avere notizie del suo rapimento. Quando apprese che l’artefice del rapimento era Ade, Demetra abbandonò l’Olimpo e, per vendicarsi, decise che la terra non avrebbe più dato frutti ai mortali, così la razza umana si sarebbe estinta nella carestia. In questo modo gli dei non avrebbero più potuto ricevere i sacrifici votivi degli uomini di cui erano tanto orgogliosi. Si mise quindi a vagare per il mondo per cercare di soffocare la sua disperazione, sorda ai lamenti degli dei e dei mortali che già  assaporavano l’amaro gusto della carestia. A quel punto Zeus, costretto a cedere alle suppliche dei mortali e degli stessi dei, ordinò ad Ade di rendere Persefone alla madre. Demetra, allora, scese negli Inferi, illuminando il suo cammino con una lucerna, finché non si trovò di fronte la sua amata figlia. Ade consegnò nuovamente la fanciulla alla madre, ma ben presto emerse l’inganno che l’astuto Dio aveva architettato nei confronti dell’ignara Persefone. Prima di riconsegnarla a Demetra, Ade le offrì dei semi di melograno, che lei mangiò senza sapere che chiunque mangiasse i frutti degli Inferi era condannato a rimanerne prigioniero. Di conseguenza Ade trovò un accordo con Demetra, stabilendo che Persefone sarebbe rimasta negli Inferi tanti mesi quanti semi aveva ingerito. Da quel momento, dunque, ogni anno per sei mesi Persefone sarebbe dovuta ritornare nel regno dei morti, e così Demetra decise che nel mondo sarebbe calato il freddo e la natura si sarebbe addormentata, dando origine all’autunno e all’inverno, mentre nei restanti sei mesi, in cui Persefone sarebbe ritornata alla luce, la terra sarebbe rifiorita, dando origine alla primavera e all’estate.

Scena di danza legata ai culti dionisiaci in un vaso greco.

Anche il girare intorno al fuoco ballando e cantando ci riporta al mito, in particolare ai riti dionisiaci, durante i quali si doveva perdere coscienza per entrare in contatto con il mondo degli Dei.

Altro elemento comune tra paganesimo e cristianesimo è il fuoco che assume un duplice significato. Se da un lato conserva un aspetto positivo, di catarsi, purificazione e guarigione, dall’altro assume una connotazione negativa, diventando elemento del demonio. Con il fuoco il diavolo si confonde e si nasconde e, sempre attraverso di esso, si mostra. La mitologia racconta di come il fuoco provocasse l’allontanamento delle creature nefaste. Coloro che erano posseduti da uno spirito maligno si posizionavano dinanzi al fuoco e sarebbero rimasti con le ginocchia rialzate sino al mento e strette con ambo le braccia per giorni, fino a quando lo spirito maligno non fosse andato via. I romani stessi accendevano un cero alla nascita di un bambino che si lasciava ardere finché non si fosse consumato. Il lume avrebbe avuto lo scopo di proteggere il bambino dagli spiriti maligni. Probabilmente non si allontana da un uso simile, quello di porre vicino alle lapidi dei defunti, un cero che arda fino a consumazione totale. Insomma fuoco come luce che straccia le tenebre, che brucia e purifica.

La leggenda di Sant’Antonio Abate e la diffusione del culto in Sardegna

Sant Antonio è una delle più grandi figure dell’ascetismo cristiano primitivo: egli visse in solitudine, tra il III e il IV secolo, nel deserto della Tebaide, dove subìcontinue tentazioni, uscendone sempre vittorioso.

Le immagini e le statue del santo, come ad esempio, quella che si può ammirare nella facciata della chiesa a lui dedicata in via Manno, a Cagliari, lo rappresentano in genere con una lunga barba, un bastone di ferula a cui si appoggia e con un maialino ai suoi piedi. Proprio il porcellino, identificazione fisica del male, è elemento essenziale nell’iconografia di Sant’Antonio.

Chiesa di Sant’Antonio Abate a Cagliari. Nella nicchia baroccheggiante che sovrasta il portale è presente la scultura di Sant’Antonio Abate con il maialino.

Nel suo libro “Leggende e tradizioni di Sardegna” Gino Bottiglioni racconta un’interessante leggenda legata al fuoco e a Sant’Antonio Abate, poi ripresa da Claudia Zedda nel suo libro “Creature fantastiche in Sardegna”. In tempi lontani gli uomini, non avendo il fuoco, invocarono Sant’Antonio. Il prezioso elemento era custodito negli Inferi, ma egli non si fece intimorire da questo ostacolo: si recò davanti all’ngresso in compagnia del maialino e del bastone di ferula e attese di poter entrare. I demoni custodi dell’Inferno fecero entrare solo il maialino, in quanto peccatore, ma quest’ultimo creò subito una tale confusione da richiedere l’ingresso anche del santo. Approfittando dell’occasione, Sant’Antonio si avvicinò alle braci con il suo bastone di ferula e rubò il fuoco. Uscito dagli Inferi donò il prezioso elemento ai sardi, gridando: Fuoco, fuoco per ogni luogo! Legna, legna per la Sardegna!.

Impossibile, a questo punto, non cogliere la palese similitudine con l’eroe mitico Prometeo che rubò il fuoco agli dei per restituirlo agli uomini, pur incorrendo nelle ire di Zeus. La descrizione che la leggenda dà del protagonista, poco ha a che vedere con un santo. Ruba il fuoco, anche se al demonio, e si dimostra ingannevole e astuto. Tutte caratteristiche che si adattano meglio a un eroe pagano qual è ad esempio Prometeo. Anche il fatto che il fuoco sia custodito sottoterra, negli inferi, rimanda a tempi arcaici, ovvero a quando questo prezioso elemento non poteva che essere custodito dalle divinità ctonie, abitanti del sottosuolo.

Il “fuoco di Sant’Antonio” e i rimedi della medicina popolare

La connessione tra Sant’Antonio Abate, il fuoco e il maialino è forte anche nella medicina popolare, in relazione alla quale il santo egiziano è invocato come santo taumaturgo in numerosi “brebus”, le preghiere e gli scongiuri popolari utilizzati per proteggere gli uomini e gli animali nelle più svariate situazioni negative. Il cosiddetto “fuoco di Sant’Antonio” o “fuoco di Satana”, scientificamente conosciuto come “herpes zoster”, è una malattia virale che coinvolge la cute e le terminazioni nervose. Si manifesta attraverso macchie cutanee simili a bruciature che provocano un dolore insopportabile. Il nome deriva dal fatto che, secondo la tradizione agiografica, il santo ne fu affetto.

Per la cura del morbo, in Sardegna venivano utilizzati vari rimedi che differivano da parte a parte dell’isola. La più frequente era una pomata preparata con grasso di maiale alla quale venivano aggiunte alcune erbe (salvia, timo, menta) che veniva spalmata su tutto il corpo o solo sulle zone interessate. L’operazione, ripetuta più volte, alleviava le sofferenze, sebbene la malattia avesse bisogno del suo corso. In alternativa al grasso del maiale si utilizzava l’olio d’oliva o il latte. L’unguento così preparato veniva poi spalmato sul corpo disegnando una croce. Un altro rimedio era l’utilizzo della pietra focaia e un pezzo di acciaio. Le scintille prodotte dallo sfregamento continuo della pietra nel metallo, accompagnate da precise formule atte ad invocare Sant’ Antonio Abate, venivano direzionate sulla fronte del paziente inginocchiato.


Riferimenti Bibliografici

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