Era un freddo 10 Dicembre del 1927 quando Grazia Deledda riceveva a Stoccolma il Premio Nobel per la Letteratura.
Il prestigioso riconoscimento si riferiva, tuttavia, all’anno precedente, rimasto senza vincitori.
All’epoca nessuna donna italiana aveva mai vinto il Premio Nobel e poche erano le donne che, in generale, riuscivano ad emergere in una società di uomini. Ma lei ci riuscì. Lei che aveva “vissuto coi boschi, i venti e le montagne” e che avrebbe portato per sempre con sè la sua Sardegna, affrontando ampi consensi ma anche aspre critiche.
Grazia Deledda, nata e cresciuta a Nuoro, “Atene Sarda” fucina di talenti in fermento, voleva fortemente scrivere. E per questo nel 1900 partì dalla sua terra per trasferirsi a Roma con il marito Palmiro Madesani, che per lei aveva lasciato il suo “posto fisso” come funzionario del Ministero delle Finanze per diventare il suo agente letterario. Palmiro Madesani, che non era un poeta, come lei non era bella (così scrive Grazia stessa in una lettera a lui indirizzata), la amò al punto da diventarne il principale sostenitore. E di sostenitori Grazia non ne aveva tanti. All’epoca in cui aveva cominciato a muovere i suoi primi passi nella scrittura non era ben vista nè dai suoi concittadini nè da molti tra i suoi stessi colleghi. Tra i pochi ad incoraggiarla, lo scrittore Enrico Costa ne apprezzava il talento e la vivacità narrativa, ma tanti nell’ambiente letterario guardavano con sospetto a quella donna apparentemente incolta, che da autodidatta si approcciava alla scrittura, che proveniva da una Sardegna ancora poco apprezzata, ma che, instancabilmente, stava dando vita a racconti destinati a trovare esiti fecondi nel romanzo, nel teatro, nel cinema.
Lo scrittore Mario Ciusa Romagna racconta che quando Grazia, diciassettenne, aveva inviato alla rivista romana “Ultima moda” la novella “Sangue sardo”, pubblicata nel 1888, nel paese lo scandalo fu grande. Persino in chiesa, durante la messa, il prete Virdis aveva tuonato dal pulpito: «Farebbe bene a pregare chi invece si diletta nello scrivere per i giornali storie scostumate!». E questo pensiero, secondo Ciusa Romagna, non si discostava da quello dei critici letterari che non amavano la Deledda perchè ella non tendeva ad altro che a rivelare un mondo arcaico, un mondo lontano, un mondo vecchio. Un pregiudizio, in effetti, che accompagnava la scrittrice da sempre e che forse tende ancora a non scomparire.
Senz’altro stretta in un ambiente provinciale e affascinata dall’ambiente artistico e letterario di Roma, dopo una breve ma importante permanenza a Cagliari, si trasferì nella “città eterna” subito dopo le nozze, inaugurando una florida attività letteraria che esplose, anche, grazie alla complicità familiare e al sodalizio professionale con Palmiro.
La relazione tra i due, da molti ritenuta paradossale, fu addirittura schernita da Luigi Pirandello il quale, nonostante il rifiuto da parte della casa editrice Treves di pubblicare il romanzo che egli scrisse per mettere in burletta la figura di Palmiro Madesani, riuscì a trovare l’appoggio dell’editore Quattrini di Firenze che lo pubblicò con il titolo di “Suo marito“. Il romanzo, poi intitolato “Giustino Roncella nato Boggiolo”, fu pubblicato nel 1911 e racconta le vicende della scrittrice Silvia Roncella, pallida controfigura della Deledda, che paga lo scotto della fama con il fallimento matrimoniale e l’infelicità nella sua vita di donna. Suo marito, che per amore decide di dedicarsi a far decollare la carriera della moglie, si dedica a prendere contatti con editori e intellettuali, diventando lo zimbello dell’ambiente culturale locale, che lo deride affibbiandogli il nomignolo di “Roncello”.
Il 18 dicembre 1908 Pirandello scriveva all’amico e direttore del “Corriere della Sera” Ugo Ojetti: «Manderò pure al Treves, spero in Aprile, il romanzo “Suo marito“. Son partito dal marito di Grazia Deledda. Lo conosci? Che capolavoro, Ugo mio! Dico, il marito di Grazia Deledda, intendiamoci».
All’epoca in cui lo scrittore siciliano scriveva questa lettera, Grazia Deledda aveva già pubblicato “Elias Portolu” (1903) che la confermò come scrittrice e segnò l’avvio di una fortunata serie di romanzi ed opere teatrali: “Cenere” nel 1904, “L’Edera” nel 1908, “Sino al confine” nel 1910, “Colombi e sparvieri” nel 1912, “Canne al vento” nel 1913, “L’incendio nell’oliveto” nel 1918 e “Il Dio dei venti” del 1922. Anche Ugo Ojetti – che nel 1907 aveva recensito più che positivamente “La madre dell’ucciso”, la scultura dell’artista nuorese Francesco Ciusa alla Biennale di Venezia – non aveva avuto parole lusinghiere per la Deledda quando nel 1905 aveva pubblicato “Nostalgie”, il suo primo romanzo “borghese”, lontano dal mondo rurale e “primitivo” che del suo linguaggio si apprezzava maggiormente.
E poi, finalmente e in maniera del tutto inaspettata e in barba all’invidioso Pirandello, arrivò il Premio Nobel. Ma a differenza di Giosuè Carducci, primo italiano a vincere il titolo nel 1906, caldeggiato da un grande nome come Antonio Fogazzaro, o lo stesso Pirandello, che vincerà il Nobel nel 1934 nominato da Guglielmo Marconi, di contro la candidatura di Grazia Deledda fu favorita non dagli italiani bensì da un gruppo di intellettuali svedesi. E per la seconda volta nella storia del Premio, a vincerlo era una donna.
Proprio oggi, quindi, occorre più che mai ricordare Grazia Deledda, occorre rileggerne le parole e osservare la Sardegna con i suoi occhi.
“Sono nata in Sardegna. La mia famiglia, composta di gente savia ma anche di violenti e di artisti primitivi, aveva autorità e aveva anche biblioteca. Ma quando cominciai a scrivere, a tredici anni, fui contrariata dai miei. Il filosofo ammonisce: se tuo figlio scrive versi, correggilo e mandalo per la strada dei monti; se lo trovi nella poesia la seconda volta, puniscilo ancora; se va per la terza volta, lascialo in pace perchè è un poeta. Senza vanità anche a me è capitato così.
Avevo un irresistibile miraggio del mondo, e soprattutto di Roma. E a Roma, dopo il fulgore della giovinezza, mi costruì una casa mia dove vivo tranquilla col mio compagno di vita ad ascoltare le ardenti parole dei miei figli giovani. Ho avuto tutte le cose che una donna può chiedere al suo destino, ma grande sopra ogni fortuna la fede nella vita e in Dio.
Ho vissuto coi venti, coi boschi, colle montagne. Ho guardato per giorni, mesi ed anni il lento svolgersi delle nuvole sul cielo sardo. Ho mille e mille volte poggiato la testa ai tronchi degli alberi, alle pietre, alle rocce per ascoltare la voce delle foglie, ciò che dicevano gli uccelli, ciò che raccontava l’acqua corrente. Ho visto l’alba e il tramonto, il sorgere della luna nell’immensa solitudine delle montagne, ho ascoltato i canti, le musiche tradizionali e le fiabe e i discorsi del popolo. E così si è formata la mia arte, come una canzone, o un motivo che sgorga spontaneo dalle labbra di un poeta primitivo”.
Con questo discorso, pubblicato anche in un video della Rai, Grazia Deledda racconta la sua storia e la sua arte, accompagnata immancabilmente dal suo “compagno di vita”. E, citando le parole della giuria, vinse “per la sua potenza di scrittrice, sostenuta da un alto ideale, che ritrae in forme plastiche la vita quale è nella sua appartata isola natale e che con profondità e con calore tratta problemi di generale interesse umano”.
Quasi dieci anni dopo il Nobel, nel 1936, Grazia si spegneva a Roma, uccisa da un tumore al seno di cui soffriva da tempo, lasciando incompiuta la sua ultima opera “Cosima, quasi Grazia”, autobiografica, che apparirà nel Settembre di quello stesso anno sulla rivista “Nuova Antologia”, a cura di Antonio Baldini, e poi verrà pubblicata col titolo di “Cosima”.
Riferimenti Bibliografici
Ulteriori approfondimenti