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Friarzu: il mese di Febbraio in Sardegna

Friarzu, Brearju o Frevarju sono i nomi con i quali è comunemente chiamato il mese di Febbraio in Sardegna. L’etimologia deriverebbe dal latino februare, che significa “purificare”, in relazione ad alcune tradizioni e festività rituali in uso nell’antica Roma, che avevano il loro culmine nei “Lupercalia”. In Sardegna Febbraio è il mese di Carrasegàre – il Carnevale – permeato tutt’oggi di riti e credenze mistiche per invocare la rinascita della Natura.

Si chiamava Februarius il mese che, secondo lo scrittore Macrobio, segnava la fine dell’inverno e l’inizio della primavera e che, come tutti i periodi di transizione, era legato a rituali atti a commemorare i defunti. La terra veniva arata, bruciata ed asportata con l’obiettivo principale di prepararla per una nuova semina. Si trattava, quindi, di una vera e propria purificazione, che avrebbe portato ad una rinascita della Natura.

A partire dal calendario giuliano, Febbraio era inoltre il secondo mese dell’anno e ad esso si affidava ogni quattro anni un anno bisestile, ovvero un anno di 366 giorni; il giorno in più veniva aggiunto dopo il 23 febbraio, che era il sesto prima del mese successivo, e per questo veniva chiamato bisesto.

Questo mese è legato fin dall’epoca romana a numerose tradizioni e credenze, molte delle quali assimilate all’interno di analoghe celebrazioni cristiane. Partendo dai culti in onore di Giunone, fino ad arrivare alla Candelora, passando per i Lupercalia, questo particolare mese dell’anno ha conservato nei secoli il senso della prosperità della Natura e della purificazione rituale, segnando in maniera significativa il passaggio dall’inverno alla primavera.

Giunone: la dea della prosperità

All’inizio di Febbraio, i romani festeggiavano la dea Giunone, le cui celebrazioni avevano il culmine il 2 Febbraio. La dea, chiamata per l’occasione Iuno Februa, cioè Giunone Propizia, o Iuno Sospes Mater Regina, cioè Giunone Salvatrice Madre Regina, costituiva insieme a Minerva e Giove la cosiddetta Triade Capitolina, alla base del culto nazionale del popolo romano. L’importanza di questa divinità protettrice della vita delle donne in tutti i suoi aspetti, era tale da celebrarla attraverso vari rituali, documentati da alcune fonti storiche. Ne conosciamo principalmente due versioni abbastanza simili tra loro

Tempio di Giunone Sospita a Lanuvio

Secondo Properzio annualmente le donne vergini offrivano focacce ad un serpente che si trovava in fondo all’antro di una grotta a Lanuvio. Le fanciulle percorrevano il tragitto in discesa verso la grotta, in solitudine, recando le offerte alimentari dentro a canestri. Se il serpente accettava il dono si prospettavano raccolti fruttuosi, in caso diverso la fanciulla veniva sacrificata per scongiurare il rischio di carestie.

Eliano, invece, precisa che l’ampia e profonda grotta si trova a Lavinio. Nei giorni stabiliti, le fanciulle consacrate entravano nel bosco con gli occhi bendati con strisce di cuoio come nei Lupercali, recando in mano una focaccia. Guidate da un’ispirazione arrivavano al drago senza vederlo, offrendogli il cibo. Il drago, però, accettava solo quello offerto dalle vergini, e lo rifiutava in caso diverso. La mancata purezza della ragazza veniva resa nota e punita secondo le pene stabilite dalla legge. La focaccia rifiutata dal drago veniva trasportata fuori dal bosco dalle formiche, purificando così il luogo.

I Lupercalia

Nell’antica Roma Febbraio era il mese dei “Lupercalia”, festa importantissima che prevedeva diversi riti di purificazione. I “Lupercalia” si svolgevano dal 13 al 15 Febbraio, in onore del dio Fauno, anche detto Lupercus, cioè protettore del bestiame ovino e caprino dall’attacco dei lupi. Questo mese era, infatti, il culmine del periodo invernale nel quale i lupi, affamati, si avvicinavano agli ovili minacciando le greggi. La festa era celebrata da giovani sacerdoti chiamati Luperci, seminudi con le membra spalmate di grasso e una maschera di fango sulla faccia; portavano anche una pelle di capra ricavata dalle vittime sacrificate nel Lupercale, la grotta poi divenuta santuario, dove i romani veneravano il dio Luperco, ai piedi del colle Palatino.

Lupercali, Domenico Beccafumi, 1519

Venivano poi fatte loro indossare le pelli delle capre sacrificate, dalle quali venivano tagliate delle strisce, le februa o amiculum Iunonis, da usare come fruste. Dopo un pasto abbondante, infatti, tutti i Luperci, dovevano correre intorno al colle saltando e colpendo con queste fruste sia il suolo per favorirne la fertilità sia chiunque incontrassero, ed in particolare le donne.

La Candelora

Con l’avvento del Cristianesimo, Febbraio è diventato il mese della “Candelora”, nome con cui è popolarmente nota la festa della Presentazione di Gesù al Tempio, celebrata dalla Chiesa Cattolica il 2 Febbraio. Prima della riforma introdotta dal Concilio Vaticano II, che ha posto l’accento sulla centralità della figura di Cristo, la festa era chiamata Purificazione della Beata Vergine Maria che, secondo la tradizione ebraica (Levitico), corrispondeva alla fine dei quaranta giorni in cui una madre che aveva dato alla luce un figlio maschio ritornava “pura” attraverso l’offerta al Tempio di un agnello e di un colombo o una tortora.

Presentazione al Tempio, Giotto, 1303-1305

Fin dal VII secolo a Roma in occasione di questa festa si svolgeva una processione notturna con ceri accesi verso la basilica di Santa Maria Maggiore. In seguito, fra il IX e il X secolo, si diffuse il rito della benedizione delle candele, originariamente sotto forma di accensione delle candele a partire da un cero benedetto. Da questo rito la festività ha assunto il nome popolare di Candelora.

Il senso della luce che illumina le tenebre, del fuoco e della purificazione, lo ritroviamo anche nel Carnevale – in Sardegna chiamato “Carrasegàre” – che porta avanti antiche tradizioni agrarie che ripropongono in chiave grottesca l’eterna lotta per la sopravvivenza che contrappone l’uomo alla natura.

Uno spunto di riflessione interessante sulla Candelora, viene offerto da Claudia Zedda nel parlare del valore simbolico del pane, che potrebbe ricollegarsi alle focacce di cui parlano Eliano e Properzio.

Ma non solo. Nella tradizione popolare, in Sardegna ma anche altrove, alla Candelora vengono affidati alcuni presagi – anche quest’usanza conserva, come abbiamo detto, origini molto antiche – al punto che sono tanti i proverbi nati per formulare l’augurio di una buona annata agricola e ipotizzare l’evoluzione della seconda parte della stagione fredda.

“A Santa Maria Candelora, si non proet, s’ilgerru ch’est fora,

ma si proet e faghe bentu, baranta dies de malu tempus”.

Tradotto dal sardo, significa che se non piove per la Candelora, l’inverno sta volgendo al termine, ma se piove e tira vento, ci attendono almeno altri quaranta giorni di maltempo. Che dire, speriamo di no!

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Riferimenti Bibliografici

R. Del Ponte, La religione dei Romani

G. Dumézil, La religione romana arcaica

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