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Bonifacio VIII: il papa odiato da Dante che creò il Regno di Sardegna

Era il 1294 quando “il gran rifiuto” di Pietro da Morrone – alias papa Celestino V – generò le condizioni per l’elezione al soglio pontificio del suo successore, il cardinale Benedetto Caetani, che scelse il nome di Bonifacio VIII. Forse, senza questa elezione, la storia dell’Europa e della Sardegna sarebbero andate in maniera diversa.

Temuto, odiato, corrotto e senza scrupoli, Bonifacio VIII fu uno tra i più discussi capi della Chiesa anche dopo la sua morte. In tanti si espressero sulla sua attività politica ma, tra tutti, il giudizio più severo fu quello di Dante Alighieri. Il poeta fiorentino odiò talmente tanto Bonifacio VIII da decidere di riservargli un bel posticino all’Inferno, sebbene quest’ultimo non fosse ancora morto.

La voragine infernale in un’illustrazione del pittore Sandro Botticelli

L’elezione al soglio pontificio del 1294

Erano trascorsi appena quattro mesi di pontificato quando papa Celestino V abdicò, creando le condizioni per una nuova elezione. Questa avvenne in soli dieci giorni nel conclave riunito in Castel Nuovo, a Napoli, il 24 Dicembre 1294. Il Sacro Collegio scelse il cardinale Benedetto Caetani, che fu poi incoronato nella Basilica di San Pietro a Roma il 23 gennaio 1295 con il nome di Bonifacio VIII.

Papa Bonifacio VIII

Come apparve ai contemporanei l’elezione del nuovo papa?

I Caetani erano un’antica famiglia nobile originaria di Gaeta, che vantava una discendenza fin dal XII secolo. Spregiudicati, ambiziosi e per niente inclini al compromesso, furono protagonisti della storia del Ducato di Gaeta, della Repubblica di Pisa, dello Stato Pontificio e del Regno delle due Sicilie. Il loro potere fu spesso causa di rivalità con altre famiglie del tempo, tra cui, in particolare, i Colonna. L’elezione del nuovo papa, quindi, fu vista malvolentieri da molti aristocratici, i quali inevitabilmente finirono per scontrarsi con il disegno teocratico promosso dalla nuova politica ecclesiastica.

Per comprendere la situazione politica dell’Italia del XIII e XIV secolo, la lettura della Divina Commedia risulta spesso uno strumento imprescindibile. Dante ha affrontato tematiche complesse legate all’Europa del suo tempo, trasformandole in un racconto fantastico per spiegare l’organizzazione ultraterrena della vita. E nella sua trattazione, poche persone sono state risparmiate da un severo giudizio morale. Non fa eccezione Bonifacio VIII, che viene citato nei canti XIX e XXVII dell’Inferno, nei quali viene addirittura predetta la sua futura condanna tra i simoniaci.

Secondo quanto afferma Dante, l’elezione papale di Bonifacio VIII fu infatti viziata da simonia (termine che fa riferimento alla compravendita di cariche ecclesiastiche) e lo stesso Celestino V fu raggirato da quest’ultimo per rinunciare alla carica. In effetti il pontificato di Celestino V fu caratterizzato da una notevole ingenuità nella gestione amministrativa della Chiesa. Il papa, anziano e da sempre dedito alla vita monastica ed eremitica, non conosceva il latino, i suoi concistori si svolgevano in volgare, ed era facile per lui cadere in continui errori burocratici, come ad esempio assegnare lo stesso beneficio a più di un richiedente. La confusa gestione dell’ufficio, unita ad una personalità probabilmente debole e non adatta a ricoprire quel ruolo, rischiavano di far cadere la Chiesa nel caos. E lo stesso papa sembrò spesso vacillare nel volerlo portare avanti.

Papa Celestino V

Della bolla ufficiale di rinuncia al soglio pontificio, rimane oggi l’analoga bolla “Quoniam aliqui” di Bonifacio VIII, essendo il testo originale andato perduto. Proprio questo fatto ha sollevato il sospetto, avallato da molti storici, che una bolla pontificia contenente tutte le giustificazioni per un’abdicazione del Papa, fosse stata compilata ad hoc proprio dal cardinal Caetani, il quale, vista l’impossibilità di controllare il Pietro da Morrone come aveva auspicato – impedito in questo da Carlo d’Angiò – intravedeva in questa vicenda la possibilità di ascendere egli stesso al soglio pontificio con notevole anticipo sui tempi che egli aveva preventivato al momento in cui aveva aderito alla sua elezione. Ma non fu tutto. Temendo uno scisma da parte dei cardinali filo-francesi a lui contrari mediante la rimessa in trono di Celestino V, il cardinal Caetani diede disposizioni affinché l’anziano monaco fosse messo sotto controllo, per evitare un rapimento da parte dei suoi nemici. Celestino, venuto a conoscenza della decisione del nuovo papa grazie ad alcuni tra i suoi fedeli cardinali, tentò una fuga, ma il 16 maggio 1295 fu catturato. Dopo aver tentanto invano di farsi ascoltare, chiedendo di lasciarlo libero, fu costretto ad accettare la prigionia e la volontà del nuovo pontefice. Alcuni storici narrano che Celestino si sia reso conto dell’inutilità delle sue richieste e, mentre veniva portato via, abbia sussurrato una frase diventata celebre e, presumibilmente, rivolta al Caetani, interpretata come un presagio:

Otterrai il Papato come una volpe, regnerai come un leone, morirai come un cane.

Bonifacio VIII e il Regno di Sardegna

Al momento della sua elezione, Benedetto Caetani aveva 64 anni. Originario di Anagni, nel Lazio, aveva un carattere diretto e brusco, ed altrettanto schematica era la visione che egli aveva della Chiesa. La profonda convinzione che alla Chiesa e al papato fosse affidato il compito di guida universale dell’umanità fu combinata con più mondani progetti di espansione territoriale, sia del papato sia della sua famiglia.

Più di ogni altra cosa, a caratterizzare il pontificato di Bonifacio VIII fu una concezione teocratica, proclamata e messa in atto con grande energia, secondo la quale il papa era al di sopra dei re e dei regni, e perciò doveva avere la preminenza e il dominio su tutta la terra e su ogni anima.

Da questo punto di vista Bonifacio può essere considerato l’ultimo grande pontefice medievale, sulla linea dei papi che avevano combattuto contro gli imperatori germanici per affermare la superiorità della sfera spirituale su quella temporale. Parafrasando le parole di Jacopone da Todi, questo carattere e la certezza ideologica della supremazia del papato su tutte le potenze della terra, trasformarono i suoi anni di regno in un inferno rivestito di paramenti d’ oro e di ambiziosi disegni politici. La sua abilità politica fu tale da condizionare molte scelte che portarono alla formazione di nuovi equilibri, nuove alleanze e nuovi regni. Tra questi, nel 1297, la creazione ex novo del Regnum Sardiniae et Corsicae.

La Torre dell’Elefante a Cagliari, costruita per volere del governo pisano nel 1307, negli anni in cui Dante scriveva la prima stesura della Divina Commedia. Foto: Gabry Loi

Quali erano le premesse storiche che portarono alla formazione di questo regno?

Nel corso del XIII secolo la Corona d’Aragona stava avanzando un’audace politica espansionistica sul Mediterraneo, in netta concorrenza con la politica mercantile contemporaneamente portata avanti dalle Repubbliche Marinare di Pisa, Genova e Venezia, alle quali contendeva il predominio sui ricchi mercati orientali. Grazie alla “ruta de las islas”, che passava attraverso le isole Baleari, la Sardegna, la Sicilia, la Grecia e Cipro, e per mezzo di empori lungo queste tappe intermedie, i catalani riuscivano a dimezzare i tempi di percorrenza delle navi mercantili, con un gran risparmio sui costi nella tratta da Barcellona a Beirut.

La Sardegna, per la sua posizione strategica, era una base indispensabile per questo audace progetto in quanto i suoi porti costituivano un approdo ideale per le navi che percorrevano quelle rotte. Contemporaneamente anche la Sicilia rappresentava una base strategica ideale per l’espansione verso Oriente. E fu proprio per il possesso della Sicilia che si batterono ferocemente Aragonesi e Angioni per l’eredità degli Hoenstaufen, in un clima di insurrezioni popolari culminate poi nella Guerra del Vespro.

La situazione tesa richiese l’intervento papale e il 12 giugno del 1295, tra Giacomo II di Aragona il Giusto e Carlo II di Angiò lo Zoppo fu stipulato un trattato di pace. Il trattato, ricordato come Trattato di Anagni, fu favorito dal papa Celestino V e concluso poi dal successore Bonifacio VIII.  Giacomo II acconsentì a restituire il Regno di Sicilia alla Chiesa e si ritirò dalla contesa mentre il pontefice lo liberò dalla scomunica e gli accordò la “licentia invadendi”, ovvero il beneplacito a invadere Sardegna e Corsica, conquistando con la forza, sotto l’appoggio della Chiesa, territori che appartenevano già ad altre potenze.

Nella Basilica di San Pietro, a Roma, il 4 aprile 1297,  si svolse la cerimonia di investitura di Giacomo II d’Aragona. Questi, in cambio, acconsentiva a corrispondere alla Chiesa il pagamento di un consistente censo annuo. Con questa manovra la Santa sede riusciva ad eliminare una tra le più grandi cause che contrapponevano le due Repubbliche Marinare di Pisa e Genova – il controllo delle rotte commerciali che passavano per l’isola – e, contemporaneamente creava i presupposti, per mettere fine alla ormai ventennale guerra del Vespro in Sicilia.

La storica battaglia di Sanluri del 1409

Tuttavia, la creazione del Regno portava con sè una questione non di poco conto: la Sardegna non era affatto libera, ma totalmente frammentata in una miriade di territori che si erano venuti a formare a seguito del delicato sistema di alleanze e battaglie che avevano già portato alla fine dei tre Giudicati di Cagliari, Torres e Gallura. A ciò si aggiungeva la presenza centrale dell’ultimo Giudicato superstite – il Regno d’Arborea – che segretamente coltivava il sogno di una Sardegna unita e indipendente sotto l’egida della casata dei Bas-Serra.

La presa della Sardegna, quindi, si rivelava un’impresa non facile e spettò all’infante Alfonso IV il compito di realizzarla attraverso l’occupazione dei territori del Cagliaritano, della Gallura e parte del Logudoro. La presa di questi territori avvenne tra il 1323 e il 1326, ma a causa delle successive e continue guerre col confinante Regno d’Arborea, il “Regnum Sardiniae et Corsicae” finì col ridursi alle sole città di Cagliari, Alghero e Luogosanto. La definitiva presa della Sardegna per mano degli aragonesi avvenne nel 1409 con la Battaglia di Sanluri, ma il Regno di Sardegna, di fatto, continuò fino al 17 Marzo 1861, quando l’ultimo re di Sardegna, Vittorio Emanuele II, fu proclamato primo re d’Italia.

Dante e Bonifacio: l’esilio da Firenze e la denuncia politica attraverso la Divina Commedia

La figura di Bonifacio VIII è sempre stata controversa e, in buona parte, questo è dovuto alla considerazione negativa espressa da Dante nella Divina Commedia. Per Dante Bonifacio VIII rappresenta l’emblema della corruzione morale della Chiesa, colui che ha trasformato la tomba di Pietro in una “cloaca del sangue e de la puzza”.

La punizione dei Simoniaci in un’illustrazione di Gustave Dorè

Nel canto XIX dell’Inferno, il poeta parla dei Simoniaci, coloro che in vita si macchiarono del vile reato di compravendita di cariche ecclesiastiche dietro denaro, titoli e favori sessuali, macchiando indelebilmente il sacro ufficio attribuito da Cristo in persona all’apostolo Pietro, primo papa della cristianità. Il termine simonia deriva da Simon Mago, descritto negli Atti degli Apostoli come un cristiano che, volendo aumentare i suoi poteri, offrì a San Pietro del denaro, chiedendogli di ricevere in cambio le facoltà taumaturgiche concesse dallo Spirito Santo.

La punizione per questo comportamento spregevole è esemplare: i Simoniaci stanno conficcati in una buca a testa in giù, con le gambe immerse fino alle cosce e con le piante dei piedi accese da fiammelle, scalciando furiosamente per il supplizio.

A predire il futuro ingresso di Bonifacio VIII tra i simoniaci, è un altro papa, Niccolò III, il papa Orsini con il quale il cardinale Caetani era stato in stretta relazione. È lui che domanda a Dante, potendone udire solo la voce, “Sè tu già costì ritto Bonifazio?», dando per scontato che quest’ultimo avrebbe presto occupato un posto all’Inferno. E’ ancora Niccolò III, poi, a rivolgersi nuovamente a Dante, rincarando la dose: «verrà colui ch’ io credea che tu fossi». In altre parole, sebbene papa Bonifacio VIII all’epoca fosse ancora in vita, il suo bel posticino tra i simoniaci era riservato!

L’odio verso il papa di Anagni incalza furiosamente anche nel XXVII canto, attraverso le parole che il Poeta fa pronunciare a Guido da Montefeltro, duca di Urbino, che definisce Bonifacio come “lo principe d’i novi Farisei”:

“Se non fosse il gran prete, a cui mal prenda! Che mi rimise ne le prime colpe”. E ancora “né sommo officio né ordini sacri guardò in sé”.

Ma non è tutto. Ancora nel XVII e nel XXVII canto del Paradiso compaiono riferimenti a Bonifacio. In particolare, nel canto XXVII è San Pietro in persona ad ammonire severamente il comportamento del papa, indegno della cattedra di Pietro al punto che questa, al cospetto di Cristo, può essere considerata vacante:

«Quelli ch’usurpa in terra il luogo mio, il luogo mio, il luogo mio che vaca ne la presenza del Figliuol di Dio»

L’Inferno di Dante in un’illustrazione del pittore Sandro Botticelli

Ma a cosa era dovuto tanto risentimento?

Verso la fine del XIII secolo, dopo un breve periodo di pace, Firenze era ripiombata nel clima di feroce contrapposizione tra i Guelfi, che sostenevano la supremazia del Papa, e i Ghibellini, fautori del primato politico dell’imperatore.

Ritratto di Dante Alighieri, dettaglio da “La disputa del sacramento” nella Stanza della Segnatura, ad opera di Raffaello.

Guelfo convinto, Dante ricopriva diversi incarichi ed era uno dei protagonisti della scena politica della sua città. L’autonomia di Firenze era per Dante un valore da difendere contro qualsiasi ingerenza, sia da parte di sovrani stranieri, sia da parte del Papa. Per tali ragioni accolse come un evento infausto l’ascesa al “soglio di Pietro” del cardinal Caetani, favorita da “colui che fece per viltade il gran rifiuto”.
Il nuovo pontefice trovò nel letterato fiorentino un fiero oppositore alla sua politica espansionistica, che a Firenze finì per dividere il partito guelfo in due fazioni: i Bianchi, capeggiati dalla famiglia dei Cerchi ed espressione dell’aristocrazia più aperta alle forze popolari, erano contrari a qualsiasi ingerenza da Roma; i Neri, guidati dai Donateschi e rappresentati dalle famiglie locali più ricche, erano per interessi economici strettamente legati al Papa.

Schierato con i Bianchi, Dante si venne a trovare sempre più isolato per via della sua partecipazione al Consiglio dei Cento che aveva deciso la messa al bando dalla città degli esponenti più violenti delle due fazioni. A questo punto la strategia di Bonifacio VIII lo attirò in una trappola “letale”. Dopo aver mandato Carlo di Valois, fratello di Filippo IV re di Francia, a prendere il controllo del Comune, fece in modo che il Poeta fosse inviato come ambasciatore a Roma per discutere la pace e qui trattenuto oltre il dovuto con l’inganno.

In questo frattempo, Carlo di Valois approfittò dei disordini cittadini per rovesciare il governo “bianco” di Firenze, nominando Podestà il fedele condottiero Cante Gabrielli. Il nuovo Podestà, alleato con i Neri, iniziò un’azione persecutoria nei confronti dello scrittore che, oltre a vedersi saccheggiata la casa, finì sul banco degli imputati con accuse infamanti, tra cui l’estorsione e la baratteria. Quest’ultimo reato (affrontato nei canti XXI e XXII dell’Inferno), assimilabile al moderno peculato, era utilizzato spesso come pretesto per far fuori i propri avversari. (Leggi l’articolo su Frate Gomita e Michele Zanche, i due sardi barattieri dell’Inferno)

Si arrivò così alla sentenza del 10 marzo 1302 che condannava in contumacia l’imputato a due anni di confino, all’interdizione perpetua dai pubblici uffici, alla confisca dei beni e al pagamento di una cospicua ammenda. Al suo reiterato rifiuto di presentarsi davanti al giudice, la pena, estesa nel 1315 ai figli Jacopo e Pietro, fu commutata nella confisca dei beni e nell’esilio perpetuo, con l’alternativa della condanna al rogo se fosse stato catturato.

Ciò per Dante significò dire addio per sempre alla sua amata terra e l’inizio di una lunga fase di sofferenza interiore e di ripensamento della sua poetica, che costituì il fulcro ideologico e stilistico della sua opera più celebre: la Divina Commedia.


Riferimenti Bibliografici

  • Dante Alighieri, La Divina Commedia
  • Francesco Cesare Casula, Breve storia di Sardegna
  • Raimondo Carta Raspi, Storia della Sardegna
  • Claudio Rendina, La vita segreta dei papi
  • Agostino Paravicini Bagliani, Bonifacio VIII
  • Massimo Seriacopi, Bonifacio VIII nella storia e nell’opera di Dante
  • Francesco Casula, I viaggiatori italiani e stranieri in Sardegna
  • Francesco Cesare Casula, Il Regno di Sardegna

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