Sostanzialmente gli studiosi e i critici della “Divina Commedia”, che a lungo si sono cimentati nell’analisi e nell’interpretazione del testo, si dividono in due categorie:
Purtroppo in mancanza di fonti documentarie che attestino o smentiscano questa notizia, si possono soltanto formulare delle ipotesi che scaturiscono da una serie di fattori e considerazioni: da una parte l’amicizia di Dante con alcuni membri delle famiglie presenti a pieno titolo nei Giudicati sardi (Visconti, Malaspina, ecc), dall’altra i numerosi riferimenti alla Sardegna e ai sardi nel testo della “Divina Commedia”. Tra queste la curiosa e del tutto veritiera abitudine di noi sardi a parlare instancabilmente della nostra terra:
“…e a dir di Sardigna le lingue lor non si senton stanche”
Gli scettici ritengono che Dante abbia riportato notizie non veritiere, ma coerenti con i radicati luoghi comuni che circondavano l’immagine riflessa della Sardegna nel Medioevo. In altre parole, a raccontare la Sardegna giudicale non era l’esperienza diretta da parte del Poeta, ma quell’immagine – spesso negativa – che la Sardegna aveva ormai ereditato da una tradizione letteraria o da cronache precedenti. Tuttavia, in virtù dei rapporti politici e commerciali tra la Sardegna e la Toscana, questi studiosi ritengono possibile che Dante conoscesse molti sardi e che dal contatto diretto con questi ultimi abbia tratto elementi sufficienti per farsi un’idea di come andassero le cose dall’altra parte del Tirreno, pur non essendosi mai recato in Sardegna fisicamente. D’altro canto, chi invece ritiene del tutto plausibile la presenza di Dante in Sardegna sostiene che il Poeta potesse essere stato ospite dei Malaspina o dei Visconti, che vantavano possedimenti e cariche nei Giudicati di Torres e Gallura.
Ad ogni modo, quale che sia la verità su questa faccenda, dobbiamo ammettere che proprio grazie all’occhio critico di Dante conosciamo meglio alcune curiosità su luoghi, fatti e personaggi della Sardegna tra il XIII e il XIV secolo.
Dante, si sa, non ha risparmiato nessuno nella sua trattazione storico-letteraria dell’Italia nel Medioevo, a cominciare dai suoi concittadini. Ma pur non sapendo con certezza quale fosse l’opinione del poeta sui sardi, a giudicare da quanto apprendiamo dai versi della “Divina Commedia” non sembra che questi siano stati a suo parere degni del “sommo premio”.
Sono soltanto due i sardi citati nell’opera dantesca. Si tratta di Michele Zanche e Frate Gomita, due personaggi le cui vicende, a quanto pare, avevano raggiunto il Continente, fino ad arrivare alle orecchie di un personaggio accorto come Dante, che di solito non si faceva sfuggire notizie e fatti di cronaca.
Il poeta li colloca nel XXII canto dell’Inferno, tra i cosiddetti “barattieri”, ovvero i dannati della V Bolgia dell’VIII Cerchio dell’Inferno, colpevoli di aver usato le loro cariche pubbliche per arricchirsi attraverso la compravendita di provvedimenti, permessi e privilegi. Si tratta, in pratica, del moderno reato di concussione, e fu la stessa accusa, falsa, rivolta a Dante dai Guelfi Neri di Firenze al momento dell’esilio.
I “barattieri” giacciono immersi nella pece bollente che li ricopre totalmente, sorvegliati dai Malebranche, demoni alati armati di bastoni uncinati coi quali afferrano e straziano ogni dannato che tenti di emergere in superficie.
Ma chi sono i due sardi che Dante colloca nell’Inferno?
Michele Zanche era siniscalco del re Enzo Hoenstaufen di Svevia, e sebbene morì di morte violenta per mano di Branca Doria, non era proprio uno stinco di santo. Ma come poteva un siniscalco del re ambire al controllo del Regno?
In generale l’atteggiamento dei regnanti e dei nobili che ottenevano privilegi feudali nei giudicati era abbastanza distaccato, anche perché la Sardegna era una terra improntata prevalentemente su un’economia rurale e lasciava poco spazio di manovra. Pertanto era frequente che i regnanti delegassero uomini di fiducia per “controllare” il Giudicato in loro vece e si dedicassero con più tranquillità ai propri affari al di fuori dell’isola.
Michele Zanche, quindi, ottenne la fiducia del re per amministrare il Giudicato di Torres o Logudori. Enzo Hoenstaufen aveva sposato la giudicessa Adelasia di Torres, dalla quale poi divorziò, e, secondo alcune fonti, Michele Zanche intrecciò con lei una relazione amorosa, convinto di poter conquistare il suo favore ed ottenere la carica di Giudice. Secondo altre fonti, invece, lo Zanche sposò Simona Doria, madre del re Enzo, e fu da questa relazione che nacquero tre figli. Ad ogni modo, a prescindere da che tipo di relazione esistesse davvero tra Zanche e le donne in questione, appare chiara la grande differenza tra i Giudicati e le altre forme di governo dell’Europa medievale: la reggenza del Giudicato, infatti, non si basava soltanto su una linea di successione dinastica tra consanguinei, ma sul consenso ottenuto dal parlamento, che in Sardegna era chiamato “Corona de Logu”. Questa era composta da un consiglio di “maggioranti” (nobili), dal popolo e dai vescovi.
Fu per questo che Michele Zanche approfittò del suo ruolo per concedere favori ed arricchirsi, in modo da accaparrarsi il consenso popolare quando sarebbe stato il momento di prendere il controllo. Dalla relazione con Simona Doria (o con Adelasia) nacque Caterina, che più tardi sarebbe stata concessa in moglie al già citato Branca Doria.
Anche quest’ultimo, diciamolo pure, si diede un gran da fare per diventare signore di Logudoro e la sua brama di potere arrivò a superare quella dell’ intraprendente suocero. Non a caso Dante riserva anche a lui un bel posticino nell’Inferno, tra i cosiddetti “traditori degli ospiti”.
Membro della nobile famiglia genovese dei Doria, signori e padroni dal 1266 di Alghero, Castelgenovese e altri villaggi del Giudicato di Torres. Branca Doria aveva messo anche lui gli occhi sul Giudicato di Torres e per questo decise di contrarre matrimonio con la sedicenne Caterina Zanche. Ma il suo piano di conquista dei diritti sul regno era minato da un unico grande ostacolo: Michele Zanche. Consapevole della fama del suocero, ritenuto un uomo arrivista e senza scrupoli, Branca elaborò un progetto diabolico per toglierlo di mezzo: organizzò uno sfarzoso banchetto con l’intento di tendergli una trappola. Partecipando ad un banchetto in suo onore, Michele Zanche non poteva immaginare quanto sarebbe accaduto poco dopo. Egli fu accerchiato da una dozzina di uomini, imprigionato e trucidato. Il suo corpo, si dice, fu ridotto in brandelli e non ne rimase traccia.
La vicenda di Michele Zanche è simile a quella di un altro “barattiere”, detto Frate Gomita. La sua vita si intreccia con quella di un altro personaggio di dantesca memoria, Nino Visconti, il “Nin gentil” amico di Dante e presente anch’egli tra i canti del Purgatorio. Questi tramò a lungo per impadronirsi dei territori dell’Ex Giudicato di Cagliari, che dal 1258 era entrato ufficialmente tra i possedimenti della Repubblica Marinara di Pisa, e si alleò in particolare con il conte Ugolino della Gherardesca, anch’egli reso celebre dai versi danteschi, il quale si trovava nel XIII secolo a governare Villa di Chiesa.
Nino era signore di Gallura, ma gli affari con Ugolino lo portarono spesso lontano, lasciando a Frate Gomita l’autorità per governare. Anch’egli, approfittando della sua carica, si arricchì a spese del Giudicato, elargendo a sua volta alte cariche in cambio di denaro o sottraendolo direttamente dalle casse del regno per i suoi scopi personali. Arrivò perfino a liberare alcuni prigionieri per farli insorgere contro l’autorità di Nino ed ereditare il possesso del Giudicato. Questo malgoverno costrinse Nino a ritornare in Gallura e riprendere in mano la situazione. Poco incline alla diplomazia, Nino lo fece catturare e uccidere.