L’autodafé, chiamato anche sermo generalis, era una cerimonia punitiva eseguita pubblicamente con lo scopo di proclamare la penitenza o la condanna decretata dal Tribunale del Sant’Uffizio.
Si trattava di una prassi complessa ed articolata che durava alcune ore e prevedeva preghiere, messe e una processione pubblica nella quale il colpevole o i colpevoli dei cosiddetti “reati contro la fede” erano accompagnati per le strade della città da confraternite, inquisitori e il popolo fino a raggiungere una piazza pubblica. Qui veniva allestito un palco in legno sul quale erano sistemati il patibolo o il rogo, la cattedra del vescovo e un altare per officiare una messa solenne.
Il condannato veniva trascinato a piedi scalzi e costretto a subire insulti ed umiliazioni fisiche e verbali da parte della popolazione che spesso inveiva. Era costretto ad indossare un abito penitenziale, chiamato sanbenito e una sorta di copricapo a punta detto corazo. Sull’abito era cucita una croce, che talvolta diventava un simbolo che indicava la pena stessa prevista per la colpa: la mezza croce, ad esempio, indicava una pena lieve, generalmente un’ammenda, mente le fiamme indicavano la condanna a morte.
Una volta raggiunto il luogo designato, l’inquisitore dava lettura pubblica della condanna. Il condannato che non aveva in alcun modo mostrato di pentirsi o che era già stato in precedenza condannato dall’Inquisizione era destinato ad essere arso vivo. Il rogo era la punizione per il più alto grado di colpa e, generalmente, veniva tributato alle streghe e agli eretici. Nel caso in cui il pentimento avvenisse dopo la lettura della sentenza, si procedeva all’impiccagione. In altri casi, qualora il pentimento fosse arrivato “in extremis”, al condannato veniva concesso un atto di clemenza: non sarebbe stato arso vivo, ma sarebbe stato decapitato o strangolato.
Nel caso di confessione spontanea o di peccati “lievi” le pene erano inferiori. Dalla confisca dei beni alla condanna ad indossare il sanbenito per un determinato periodo di tempo o a vita. Un’altra punizione era la condanna a prestare opera di soccorso e assistenza presso ospedali cittadini.
Il primo autodafè in Spagna fu eseguito per volere dell’inquisitore generale Thomas de Torquemada nel 1481 a Siviglia.
In Sardegna un celebre autodafè fu celebrato nel 1545 a Cagliari e coinvolse Dominica Figus e Truisco Casula, due amanti processati per stregoneria e falsa testimonianza ai danni della viceregina Maria De Requenses, consorte del vicerè di Sardegna Antonio Cardona. I due furono strumentalizzati da alcune famiglie nobili del tempo, entrando a far parte di un complesso intrigo ordito dalla fazione cagliaritana antiregia che da tempo cercava di rovesciare l’autorità viceregia ed assumere il controllo della città e con esso le più alte cariche politiche. A seguito di un processo durato alcuni anni, entrambi furono arsi vivi al cospetto della Cattedrale.
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