A testimoniare la presenza giudaica in Sardegna rimangono oggi poche testimonianze materiali, distrutte in buona parte da quel lungo processo di demonizzazione della cultura ebraica compiuto a partire dal Decreto di Granada emanato dai re cattolici di Spagna nel 1492. Un importante lavoro di ricerca condotto sui documenti d’archivio dalla professoressa Cecilia Tasca ha permesso oggi di conoscere informazioni molto importanti sulla vita sociale ed economica degli ebrei in Sardegna che, in mancanza di testimonianze storico-artistiche ed architettoniche, raccontano in maniera esauriente alcune pagine di storia che dovrebbero essere lette e conosciute da tutti, soprattutto in un periodo buio come quello che stiamo attraversando, caratterizzato, spesso, dall’intolleranza e dalla xenofobia.
La presenza di comunità giudaiche sull’isola è attestata fin dal VI secolo d.C., come si apprende da alcune lettere di papa Gregorio Magno. Tuttavia sappiamo dallo storico Tacito che l’imperatore Tiberio già qualche secolo prima, nel 19 d.C., aveva inviato in Sardegna circa quattromila liberti di religione ebraica ostili a Roma, che probabilmente costituiscono il nucleo più antico del giudaismo sardo.
Tra la dominazione pisana e quella aragonese – cioè tra il XIII e XV secolo – agli ebrei fu concesso di vivere all’interno del quartiere Castello, in un’area specifica detta “juharia” o “giuderia“. Questa si inscriveva inizialmente tra le attuali via Santa Croce – chiamata inizialmente via Fontana e poi Ruga Judeorum – e via Stretta, per poi espandersi quasi fino a risalire il Forte San Pancrazio.
Inizialmente organizzate in piccole colonie – in spagnolo dette aljamas – le comunità ebraiche trovarono un vero e proprio ordinamento politico-amministrativo nella seconda meta del XIV secolo. La giuderia di Cagliari è infatti documentata a partire dal 1346.
Contemporaneamente, nel versante nord dell’isola, si era formata un’altra importante comunità ebraica ad Alghero. Altre comunità erano presenti a Iglesias, Oristano, Iglesias e Sassari. Quella cagliaritana, tuttavia, costituiva la più grande comunità ebraica radicata sull’isola e -cosa di non poco conto – questa trovava posto nel quartiere più importante della città.
Quando l’Infante Alfonso d’Aragona nel 1323 cominciava la sua conquista della Sardegna, ad accompagnarlo, tra i tanti che sostennero finanziariamente e materialmente la spedizione, c’erano anche diversi ebrei, tra cui due suoi medici personali. La conquista catalana segnò un punto di svolta per le comunità ebraiche di Barcellona, Girona, Saragoza e le altre città del Regno d’Aragona che, incoraggiate dalla prospettiva di nuovi commerci e una vita migliore, si trasferirono in Sardegna. La posizione filo-giudaica dei regnanti d’Aragona era dovuta alla necessità di aiuto finanziario e collaborazione che gli ebrei potevano garantire in cambio di protezione. Non è un caso che nello stesso periodo gli ebrei fossero perseguitati in Inghilterra, Francia e Germania.
Nel 1335 il re estese alla comunità ebraica di Cagliari i privilegi di cui godevano gli ebrei di Barcellona. In più, forse per favorire il graduale inserimento di altri ebrei in città, stabilì che i potenziali immigrati fossero esonerati per i primi tre anni di permanenza sull’isola dal pagamento di alcune imposte.
La vita degli ebrei a Cagliari, almeno fino alle norme restrittive imposte dal governo spagnolo, doveva svolgersi in maniera tranquilla. L’ordinamento delle comunità isolane rifletteva quello delle città catalano-aragonesi, soprattutto Barcellona. In Spagna gli ebrei erano sempre separati dai cristiani, ma godettero di molta autonomia, essendo protetti dal sovrano contro il clero e i nobili cristiani. A Cagliari, invece, la comunità si era stabilita volontariamente nella “giuderia”, senza, cioè, alcun tipo di confinamento forzato, e qui portava avanti le proprie attività, coerentemente con l’osservanza delle norme adottate nel governo cittadino, relazionandosi con le autorità locali competenti in materia di privilegi, tasse, dazi, ecc. E’ erronea l’attuale denominazione di Ghetto degli ebrei dato alla struttura dell’ex Caserma San Carlo, che oggi ospita un importante centro d’arte e cultura cittadino; denominazione che si mantiene più per praticità che per coerenza storica. La caserma, infatti, fu realizzata nel 1738 per volontà del viceré piemontese Carlo di Rivarolo e dedicata a San Carlo in onore del re Carlo Emanuele III di Savoia, all’epoca reggente.
Nel 1475 Ferdinando II di Trastamara, futuro re d’Aragona, e Isabella I, regina di Castiglia e León convolarono a nozze. Il celebre matrimonio suggellò la nascita del Regno di Spagna, derivante dall’unione delle due corone e dei relativi possedimenti. La Sardegna, già parte della Corona d’Aragona, entrò a pieno titolo in questa nuova ed estesa giurisdizione.
Questo cambiamento politico generò i primi grandi problemi per la vita delle comunità ebraiche, le cui condizioni andarono progressivamente a peggiorare.
Nel 1479, con la morte del padre Giovanni II d’Aragona, Ferdinando di Trastamara – detto “Il cattolico” – ereditava il titolo di re d’Aragona, dando vita ad una politica repressiva basata sulla totale intolleranza nei confronti di ebrei e musulmani, poi culminata con il famoso Decreto dell’Alhambra (o decreto di Granada) del 31 Marzo 1492. Ferdinando raddoppiò la tassa annuale della comunità ebraica di Cagliari, che si aggiungeva alle altre onerose tasse annuali per la sinagoga, il cimitero e le sovvenzioni straordinarie per guerre e spedizioni militari. Per molti anni gli ebrei furono fra i ricchi possidenti a finanziare le speculazioni della Corona.
Il decreto rientrava a pieno titolo in quel glorioso progetto di “Reconquista” dei regni moreschi e musulmani di al-Andalus (Spagna e Portogallo meridionali) da parte degli eserciti cristiani e stabiliva una serie di norme la cui stretta osservanza era continuamente sorvegliata dai principali organi del governo, tra cui, in primis, il Tribunale del Sant’Uffizio. Le conseguenze di questa politica non si fecero attendere e pian piano i vari territori incorporati nel Regno di Spagna dovettero piegarsi alla dirompente forza spagnola. Le condizioni erano semplici: convertirsi forzatamente al cristianesimo oppure lasciare per sempre i territori cristiani. Così, come stabilito dal decreto, il 31 luglio 1492, molte famiglie ebree di Cagliari lasciarono l’isola e i loro beni furono interamente confiscati. Quanti sopravvissero alle dure condizioni della traversata in mare trovarono rifugio a Napoli, Livorno, nelle coste del Nord Africa o a Istanbul. Secondo quanto riferisce il canonico Giovanni Spano, furono circa cinquemila gli ebrei a lasciare la Sardegna.
“Conversos”: così erano chiamati gli ebrei costretti a convertirsi al cristianesimo. Piegati dal potere sovrano, questi ultimi furono costretti a cedere i propri beni alla Corona e professare una nuova fede. Considerati reticenti, ambigui e perversi, i essi caddero spesso vittime del Tribunale della Santa Inquisizione, che in quello stesso anno a Cagliari dava inizio ad un’epoca di terrore perpetrato a partire dal primo inquisitore Sancho Marin.
Nel cuore pulsante della Giuderia di Cagliari gli ebrei avevano costruito la propria sinagoga. Per quanto oggi non sia possibile stabilire con certezza le esatte dimensioni dell’edificio, demolito nel corso del XVI secolo e in parte sostituito dall’attuale basilica di Santa Croce, le indagini archeologiche condotte negli ultimi anni hanno permesso di ipotizzare un’estensione significativa dell’impianto, sottolineandone, di conseguenza, l’importanza per il quartiere e per la comunità . Con tutta probabilità l’edificio si estendeva tra l’attuale via Corte d’Appello (in corrispondenza della chiesa di Santa Maria del Monte di Pietà) e via Santa Croce (oggi occupata dall’omonima basilica).
Sul finire del Quattrocento, per ordine dei re cattolici, la sinagoga fu demolita ed al suo posto, a partire dal 1530, sorse l’attuale basilica di Santa Croce. Secondo le notizie riportate dallo storico Francesco Fara, fu adottata la consuetudine di intitolare alla Santa Croce ogni chiesa cristiana sorta sulle vestigia di una sinagoga distrutta. Ma per sradicare ogni residuo di ebraismo dalla memoria storica del quartiere e dalla mente dei suoi abitanti, fu necessaria un’opera di demonizzazione del simbolo e la sinagoga fu trasformata in un luogo demoniaco in cui gli ebrei compivano segretamente rituali magici e sortilegi a base di sacrifici umani, soprattutto ai danni di bambini non ancora battezzati. La cosiddetta accusa del sangue, mossa agli ebrei anche durante l’Olocausto, portò ad una profonda avversione verso l’ebraismo, considerata come una religione maligna e perversa.
È emblematica a tal proposito l’invenzione del cosiddetto sabba, il rituale orgiastico di accoppiamento tra il diavolo e le streghe, che diventa un tema centrale nella lotta contro la stregoneria ed è presente in quasi tutti i verbali di interrogatorio compilati dal tribunale del Sant’Uffizio. Il termine ha origine dalla parola ebraica “shabbat” che rappresenta per gli ebrei il giorno del riposo, che comincia al tramonto del venerdì e si conclude al tramonto del sabato. Lo shabbat ebraico viene trasformato nel momento di possessione demoniaca per eccellenza, nella quale si effettuavano rituali occulti e violenti. Non a caso, il sabba veniva anche chiamato sinagoga. Secondo i vari manuali di demonologia, durante il sabba le streghe giungevano al luogo prestabilito volando a cavallo di un animale, sopra un bastone, una panca, una pentola o una scopa. A permettere il volo era un unguento magico preparato con erbe e grasso di bambini o animali sacrificati.
In Sardegna l’avversione verso l’ebraismo e verso la sinagoga in particolare ha dato origine a numerose leggende, nate dalla paura e dalla superstizione popolare. Tra queste, l’anteopologa Dolores Turchi riferisce alcune varianti che riguardano la Surbile, una sorta di strega-vampiro il cui termine potrebbe derivare da “sorbere”, che alludeva all’attività di succhiare il sangue. E’ molto interessante, inoltre, quanto afferma Claudia Zedda riguardo alla leggenda della temibile strega Sisinnia Coga. Frutto di una storpiatura dialettale del termine sinagoga (“sa sinagoga” in sardo), questa creatura era una “coga” (strega) che rappresentava la personificazione del male per eccellenza. Viene descritta come una donna dalle sembianze orrende, con la testa di un gallo, braccia lunghe come pertiche, seni simili a scope e un becco aguzzo che utilizzava per dilaniare le carni degli uomini.
Ulteriori riferimenti