Una scultura affascinante e misteriosa che si staglia elegante nel verde dei Giardini Pubblici di Cagliari e custodisce un passato lontano denso di storia e curiosità.
Secondo Alberto La Marmora, che l’aveva descritta nel suo diario di viaggio dal titolo “Itinerario nell’isola di Sardegna”, pubblicato a Torino nel 1860, si trattava della più bella opera racchiusa nello spazio verde dei Giardini.
“La maggior curiosità del giardino della Polveriera è un’antica statua di marmo di esecuzione abbastanza buona e passabilmente restaurata. Poggia su un piedistallo e s’eleva maestosamente in mezzo alle siepi e i fiori che ornano l’aiuola”.
Che una “statua antica” ornasse i viali di un giardino non era senz’altro una novità, riproponendo lo schema rinascimentale dei giardini francesi e italiani. Ma allora perchè l’occhio critico di Alberto la Marmora, viaggiatore curioso e attento del XIX secolo, si sofferma su un particolare apparentemente tanto banale?
Ciò che catturò l’attenzione del generale piemontese fu il modo in cui quella scultura era stata “riadattata” per essere inserita in quel contesto.
Chiunque oggi, percorrendo il viale centrale dei Giardini Pubblici, a pochi metri dalla sua conclusione di fronte alla Galleria Comunale d’Arte, nota sulla destra una grande statua di marmo bianco che poggia su un alto piedistallo e rappresenta una figura femminile abbigliata come una matrona romana. Eppure in pochissimi conoscono la sua storia.
La figura mostra un abbigliamento elegante tipico delle sculture femminili di epoca ellenistica. Una tunica leggera detta “chiton” e un mantello detto “himaton” ne avvolgono delicatamente le forme classicheggianti. La mano destra, oggi mancante, sembra trattenere la pesante veste sul petto, mentre il braccio sinistro scivola lungo il fianco. Una donna importante, sicuramente, ma chi?
In base alla datazione riferibile al II secolo d.C., alcuni studiosi ipotizzano si tratti di Vibia Sabina, moglie dell’imperatore Adriano, mentre altri ancora ritengono possa trattarsi di Matidia, nipote dell’imperatore Traiano.
Tuttavia nell’incertezza dell’identità, la scultura viene denominata “Grande Ercolanese”, termine che indica genericamente un’iconografia femminile diffusasi all’interno della scuola di Prassitele del IV secolo a.C. e riprodotta attraverso modelli romani a partire dall’età augustea. La prima di queste copie fu rinvenuta durante gli scavi settecenteschi di Ercolano, i quali avevano portato l’Occidente alla corretta interpretazione della statuaria greca, fino ad allora conosciuta unicamente attraverso le copie romane. Esistono numerose versioni di “Grande Ercolanese”, tra cui quella custodita nei Musei Civici di Bergamo.
Della copia cagliaritana, tuttavia, si conosce ben poco, a cominciare dalla sua identità . In tal senso, dunque, risultano fondamentali le notizie riportate dal La Marmora, che si possono “incrociare” con quelle raccolte da un altro illustre cronista del Settecento, il canonico Vittorio Angius. Egli racconta che la scultura si trovava sulla facciata di un’antica chiesa nelle campagne di Uta, quella di San Cromazio (San Tommaso), di cui oggi restano solo poche mura perimetrali. La statua era racchiusa entro una grande nicchia nella facciata e, col tempo, gli abitanti di Uta avevano cominciato a venerarla come la madre del santo.
La venerazione cristiana di una scultura ellenistica non ha nulla di sorprendente, incarnando pienamente l’atteggiamento sincretistico del Cristianesimo medievale, il quale tendeva ad assimilare atteggiamenti e simboli prettamente pagani all’interno del nuovo credo.
Sempre l’Angius ci dice che fu il conte Carlo Pilo Boyl di Putifigari, al quale si lega la sistemazione della Regia Polveriera negli anni venti dell’Ottocento, a far rimuovere la scultura dalla facciata e trasportarla a Cagliari intorno al 1790. Secondo il canonico Giovanni Spano, che visse al tempo del La Marmora, invece, la traslazione da Uta a Cagliari sarebbe avvenuta al tempo della realizzazione della facciata della Polveriera nel 1828. Egli, inoltre, aggiunge un altro particolare, identificandola come una sacerdotessa di Nora, chiamata Favonia Vera. Al tempo stesso ci informa su altre identificazioni proposte da studiosi dell’Ottocento:
“Chi la riteneva l’imperatrice Anna Valerla Faustina, moglie di Antonino Pio figlia del prefetto di Roma Antonio Vero. Antonino come è noto la amava molto e quand’essa morì, la fece annoverare fra le dee e le dedicò un magnifico tempio. Chi ravvisa nella statua un’altra Anna Faustina figlia della precedente, sposa di Marco Aurelio e madre di Commodo. Alla di lei memoria il senato fece erigere una bellissima statua nel tempio di Venere, ai piedi della quale i fidanzati dovevano recarsi per offrir sacrifici. Più tardi fu dipinta come una dissoluta ma pare che ciò sia avvenuto per rendere più detestabile la figura di Commodo. Non basta. La statua di Uta, chiamiamola così, pare rappresentare secondo altri l’imperatrice Lucilia, nipote e figlia delle citate che a 17 anni sposò Lucio Vero, uomo corrotto, che la abbandonò. Fu allora che si diede anch’essa alla vita facile e non se ne astenne neppure quando sposò in seconde nozze il vecchio senatore Claudio Pomponio”.
Dalle varie notizie riportate dallo Spano si apprende, dunque, che la scultura godeva di una certa fama tra gli studiosi. Ma è il generale La Marmora a fornirci il dettaglio più interessante, ovvero la “trasformazione” della scultura ellenistica nella giudicessa Eleonora. E la sua indagine ci riporta indietro alla Sardegna dell’Ottocento, che aveva visto una consistente fioritura di trattati, saggi e componimenti si erano posti il principale obiettivo di valorizzare il suo glorioso passato in chiave nazionalistica. E’ la Sardegna legata alla vicenda dei cosiddetti “falsi d’Arborea”, una serie di carte pergamenacee erroneamente ritenute appartenenti alla cancelleria giudicale del regno di Arborea e, per questo, a lungo studiate da intellettuali e politici come Pietro Martini, Carlo Baudi di Vesme e lo stesso La Marmora. A seguito del “fortuito” ritrovamento dei documenti, soprattutto a Cagliari era forte il desiderio di dedicare una statua alla giudicessa Eleonora, di cui, tra l’latro, non esistevano ritratti.
Pertanto, in un momento di grande importanza storica, nel quale, grazie alle carte d’Arborea, si cominciava a far luce sulla grande epopea dei Giudicati sardi, personaggi come Eleonora diventarono il simbolo di una Sardegna moderna e autentica, molto più vicina alla storia politica e culturale italiana che non a quella spagnola, di cui l’isola, tuttavia, continuava a conservare un retaggio di oltre quattro secoli. Sentendo il bisogno di legittimare l’importanza storica della Sardegna entro un disegno di respiro nazionale, si arrivò, quindi, ad un singolare compromesso: trasformare la grande Ercolanese nella giudicessa Eleonora d’Arborea.
Fu così che all’antica statua romana fu aggiunta una mano con un rotolo, simbolo della Carta de Logu, tralasciando, naturalmente, l’abbigliamento che non era certo pertinente al XIV secolo. Ma di fronte ad una priorità di tale portata, qualsiasi dettaglio anti-storico finì col passare in secondo piano. Perfino il volto fu rimodellato, lasciando il posto a nuovi tratti fisionomici che, come una “maschera”, coprirono l’effigie originaria dell’antica matrona romana. Con qualche piccolo accorgimento, dunque, la statua venne collocata nel Giardino di Cagliari, di recente apertura, e ribattezzata come immagine di Eleonora d’Arborea.
“La statua rappresenta una donna alla quale è stato successivamente messo in mano un rotolo che dovrebbe rappresentare la famosa Carta de Logu, un codice notevole per l’epoca, promulgato da Eleonora d’Arborea, moglie di Brancaleone Doria. Questa domina romana in marmo fu così trasformata in una legislatrice nazionale della fine del XIV secolo, la cui memoria resta cara agli abitanti della Sardegna.
Oggi la mano che impugnava il rotolo d’Arborea non è più visibile, deturpata, come molte altre sculture, dai numerosi atti vandalici, e la statua è tornata all’ originale, serbando tutto il fascino della sua misteriosa identità.
Riferimenti Bibliografici
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